You were never really here, di Lynne Ramsey
Cosa serve per fare un grande film? La lezione che talvolta provano a propinarci è che serva una buona storia. Ed è vero, spesso; ma non sempre. Serve saper parlare, con l’idea di realizzare grande cinema, anche con una storia all’apparenza semplice. You were never really here di Lynne Ramsey si inserisce in questa corrente, dove non è la storia ma come viene narrata (e cioè la regia, in primis) a creare il cinema.
[Apro e chiudo un inciso: macosacazzovièvenutoinmente di cambiare il titolo in italiano? Perché, è giusto saperlo, in Italia il film è uscito col titolo di A Beautiful Day. Che non c’entra niente col film, ed ha il solo scopo di affossare il botteghino, non invogliando gli spettatori ad andare a vederlo. Perché? Potevamo tradurlo, almeno avremmo giustificato gli scempi (Io propongo Se mi lasci ti martello)! Ma perché cambiare titolo mettendo un’altra frase, sempre in inglese, ma priva di senso? Chiudo l’inciso]
La storia, come dicevamo, è all’apparenza semplice e ricorda, a tratti Drive di Nicolas Winding Refn. Ma come accadeva nel film con quel manzo monoespressione di Goslin, la regia trasforma una storia banale in un gioiello cinematografico. La macchina da presa segue il protagonista mettendosi sempre dove non ti aspetteresti. La fotografia è splendida ed il ritmo della narrazione è giustamente calibrato, mai forzato. Si aggiunge a questo un attore strepitoso, che quasi non parla per tutto il film (ma che vince il premio come miglior attore a Cannes). Joaquin Phoenix è Joe, un ex soldato, tormentato da un PTSD colossale, che combatte contro i suoi demoni (derivati da un padre sadico e dai crimini della guerra) e contro i racket di prostituzione minorile, come sicario. Misantropo, nichilista, votato all’autodistruzione, fin dalle prime inquadrature si sottolinea la sua presenza fisica: il corpo martoriato e sfatto, lo sguardo tragicamente inquieto. A questo, però, si contrappone la sua assenza (da cui il titolo), come se le azioni non venissero compiute mai da lui o non fossero azioni fisiche (per quanto brutali). Il suo fisico ingombrante sparisce nelle scene, quasi fosse un fantasma; le azioni compiuta da una forza inarrestabile, naturale, incorporea. Molto più solidi della sue azioni sono i ricordi ed i flashback che lo tormentano costantemente.
Lynne Ramsey empatizza con questo suo personaggio brutale e malato, la cui mente è capace di disturbare e tramutare la narrazione a sua immagine e somiglianza, tanto da far assumere al film tinte francamente horror nell’ultima parte. Eppure non si indulge mai nella violenza, semmai nell’innocenza. La sua redenzione, o il suo estremo tentativo di non impazzire, risiedono nell’affetto per la vecchia madre e per le ragazzine che salva. L’innocenza (della vecchia e della giovane) come unico contraltare alla brutalità della vita, come unico appiglio, da difendere con le unghie e con i denti (ed il martello, tanto martello).
Menzione a parte merita il lavoro sul sonoro, semplicemente eccellente. La colonna sonora si mescola con i suoni ambientali e con i rumori distorti della mente del protagonista, alternando grottesche canzoni anni ’60 a rumori stridenti e martellanti (sì, gli piace proprio).
Cupo, ma umano. Violento, ma più col pensiero che con le azioni.
Voto: 8