Wonderstruck, nella Camera delle Meraviglie di Todd Haynes
Esattamente come il regista Todd Haynes nel suon nuovo film, Wonderstruck, anche noi ci permettiamo di essere inizialmente un poco didascalici. È necessario, infatti, accennare al concetto di Wunderkammer, o Camera delle Meraviglie, tanto cara ai ricchi illuminati del Settecento e dell’Ottocento. Descritta nel film come l’antecedente del museo, era una zona della casa dedicata alle meraviglie e stranezze raccolte o acquistate dal proprietario, provenienti da tutto il mondo. Statue, teschi di animali, tassidermia, disegni, curiosità, quadri, maschere africane accanto a mezzibusti greci, teste di scimmia sudamericane accanto a veri (?) denti di Tyrannosaurus Rex; tutto debitamente catalogato e disposto per creare meraviglia nell’osservatore estasiato; tutto debitamente volto all’accumulo e, spesso, all’ostentazione.
Ma l’esposizione è qualcosa di morto oppure di vivo?
Il regista sembra avere un’idea molto precisa a riguardo, che ci svela pian piano seguendo le vite distanti ma parallele dei due giovani protagonisti, alla scoperta di una loro personale “Stanza delle Meraviglie” sempre più ampia. Seguendo quasi pedissequamente il libro grafico da cui il film è tratto, e di cui l’autore Brian Selznick è anche sceneggiatore, Wonderstruck ci conduce attraverso decenni ed esperienze di crescita, tutte a confronto con l’”esposizione” museale e non solo. I bambini hanno, all’inizio, la loro personale Wunderkammer di fantasia con cui riempiono la propria cameretta: sono i palazzi di carta di Rose (una arrabbiatissima Millicent Simmonds), le frasi appese della madre di Ben e i suoi poster. Entrambi poi si spostano a Manhattan, vera raccolta di Meraviglie per chiunque vi transiti. È qui che scopriranno la bellezza del museo e qualcosa di più. La bellezza dei casi intricati della vita. E come l’esposizione, la Wunderkammer prima, il museo poi, altro non sia che il tentativo estremo ed estremamente umano di controllare il mondo intorno a noi. Un tentativo forse fallimentare, ma bellissimo come tutte le cose destinate al fallimento e per questo perpetrate con maggiore sforzo. Lo spiega chiaramente Rose anziana (una sempre perfetta Julianne Moore), inserendo nel suo plastico monumentale “pezzi” di vita di suo figlio, rendendo l’esposizione tremendamente viva.
Il regista riesce, seguendo le due vite, ad alternare stili registici a tratti agli antipodi. La vita di Rose bambina è in bianco e nero e girata come un film muto, dal momento che la ragazzina è sorda. Le inquadrature, i movimenti, sono splendidi omaggi al cinema degli anni ’20, ma restituiti con una freschezza ed una genuinità che non alterano la fruibilità degli occhi moderni. Al contrario, la vicenda del piccolo Ben è seguita con colori e inquadrature quanto mai moderne e con un ritmo tutto diverso, sottolineato, in entrambi i casi, da una colonna sonora che svolge un ruolo spesso narrativo. Il film rischia spesso di scivolare in una forma di patetismo, soprattutto all’inizio, e richiede pazienza allo spettatore. La paziente di scoprire come i tasselli andranno ad incastrarsi fra di loro, riflessa in un montaggio importantissimo nella narrazione; e la pazienza di guardare oltre le opere esposte nella sala museale che è il cinema. Perché per Todd Haynes il cinema altro non è che una enorme Wunderkammer, il cui obiettivo è la meraviglia. Ma non la meraviglia per qualcosa di morto ed esposto, quanto quella per qualcosa di vivo e vibrante. Ogni esposizione rimanda ad una vita, che per qualche motivo si è intrecciata con un’altra e con un’altra ancora, fino ad arrivare alla nostra, in un inestricabile intreccio eterno senza inizio e senza fine, assolutamente incomprensibile a chi lo guarda dall’interno. È forse il senso ultimo dell’arte tutta?
Si narra che gli indiani avessero paura della fotografia, perché ritenuta in grado di rubare l’anima. Per Haynes, invece, queste forme di arte non rubano l’anima: la rendono eterna.
Voto: 7