Who Built the Moon di Noel Gallagher è una cesura col passato
I leader delle band si dividono in due grandi categorie. Da un lato abbiamo gli spacconi, quelli che arrivano agli onori delle cronache per una vita di eccessi, dichiarazioni infuocate, concerti sopra le righe, esibizionismi estremi. Dall’altra i tranquilli, bravi ragazzi che, forse, incontrandoli per strada faresti fatica a notarli. Anonimi, pacati, la faccia pulita: la classica rockstar della porta accanto.
Inutile dire che i favori delle masse siano sempre verso i bad boys, del resto John Lennon nudo nel letto con quel gran pezzo di donna di Yoko Ono vincerà sempre su Paul McCartney, sposato con Linda finché morte non ci separi. Fa parte del gioco. Eppure, in questo equilibrio di forze opposte necessarie a tenere in vita un gruppo musicale, io parteggio sempre per il meno vistoso dei componenti. Ronnie Wood su Keith Richards e Mick Jagger, Brian May su Freddie Mercury, il già citato Macca su quell’insopportabile di Lennon.
Non ci posso fare niente.
Il discorso poi prende pieghe da tifo calcistico quando entriamo in argomento Oasis.
Conosciamo tutti il buon Liam, più giovane dei fratelli Gallagher: sobrio 4 giorni degli ultimi 25 anni, due arresti alle spalle, concerti abbandonati a metà, camerini sfasciati, un output creativo che non supera le 6 canzoni scritte in altrettanti album, tweet che per metà capisce solo lui e per l’altra metà avrebbe potuto scrivere anche un bimbetto di seconda elementare.
E poi c’è Noel, The Chief, lingua lunga che elargisce giudizi affilati e l’aria di chi saprà sempre cosa rispondere, che tu sia il Primo Ministro o l’ennesimo giornalista di NME in cerca di scoop da copertina. Autore di praticamente tutte le canzoni della band mancuniana, un conto in banca che farebbe impallidire sua maestà la Regina, il suo unico divertimento mondano è ubriacarsi con Morrisey e Bono Vox e continua imperterrito a muoversi per Londra con la metropolitana invece delle auto private. Pazienza se metà delle persone finirà per chiedergli “Ehi LIAM, mi fai un autografo?”.
Io, non vogliatemene, sono del Team Noel. E posso capire se adesso sarà complicato leggere la recensione di questo nuovo “Who Built the Moon?” senza il timore che io sia leggermente influenzato nel giudizio. Avreste ragione, ma del resto SALT è pieno di articoli equidistanti.
Questo è partigiano, non ditemi che non vi avevo avvertito.
Giunto al terzo LP post-Oasis, Noel deve aver intuito che le cartucce che lo hanno reso “il miglior cantautore della sua generazione” (George Martin dixit, uno che di buoni musicisti ne sapeva qualcosa) stavano per esaurirsi.
Perciò, giunto a 50 anni suonati, eccolo cercare una svolta, nuova linfa, una cesura col passato. In questa direzione va, ad esempio, la scelta di affidarsi alla produzione di David Holmes. Non esattamente un’anima rock, il buon Holmes ha rivoluzionato l’approccio alla canzone di Noel, costringendolo a uscire dalla propria comfort zone ed evitare le soluzioni più riconoscibili del repertorio. Suona come gli Oasis? Bene, cancelliamo e riscriviamo. The Chief nicchia, perde l’equilibrio, poi ci prende gusto e non smette più.
Il suono è contaminato, elettronico, non esistono tabù. Noel si diverte, ha un numero di hit radiofoniche alle spalle che non lo costringono di certo all’ennesimo tormentone per fare cassa, adesso può fare proprio quello che vuole.
Fort Knox apre le danze senza strofe e senza ritornelli. Un semplice trip acidello e danzereccio che avrebbe fatto bella figura in qualche tracklist dei Chemical Brothers. Noel? Sei sempre tu al timone?
È poi il turno di brani meno coraggiosi, come il singolone Holy Mountain, divertissement anni ‘60 (Keep on Reachin che forse sarebbe piaciuta anche a Ray Charles nel periodo eroinomane) e due o tre perle che riescono come sempre ad alzare l’asticella. It’s a Beautiful World ipnotizza, con quel riff anti-pop, il basso nervoso e il parlato francese di metà brano. She Taught Me How To Fly è l’allegria che non ti aspetti, quell’ometto burbero che decide di togliersi la maschera e farti vedere che è anche in grado di sorridere. Il risultato spiazza, forse non reggerà la prova del tempo, probabilmente è figlio di troppi richiami a certi anni ’80. Però alla fine il piedino batte al ritmo e il ritornello vince la prova della doccia. Promossa.
The Man who Built the Moon è il proverbiale dulcis in fundo. È bella, non mi serve dire altro. Mettetevi le cuffie. Probabilmente Who Built the Moon? non è la miglior collezione di canzoni, anzi ci sono un paio di episodi decisamente sottotono. Ma Noel ha capito che non gli serve limitarsi, può giocare con la materia musicale plasmandola in direzioni nuove e inaspettate, evitando di ripetere la formula magica: quella è lì e ogni volta che ripeterà il trucco resteremo ammaliati. Sembra uscito da una prigionia durata 25 anni, è chiaro che non sia a suo agio con tutta questa libertà ma diamogli tempo.
Quello che dimostra questo disco, intanto, è che i grandi artisti sono riconoscibili qualsiasi cosa cantino.
Il loro linguaggio va oltre la forma-canzone, è un’impronta riconoscibile in ogni contesto e dentro tutte le sperimentazioni stilistiche che la musica può offrire.
Dylan è Dylan, svolta elettrica o meno.
Springsteen è Springsteen da Born in the USA a The Rising, passando per Nebraska.
Noel è Noel, che scriva Wonderwall o Fort Knox.
E qui sta anche il problema. Puoi amarlo, odiarlo, può starti indifferente, ma difficilmente riuscirai a cambiare idea su Our Kid.
Penso che abbiate capito io da che parte sto.
A proposito, nel 2017 è uscito anche il disco di Liam, As You Were. Ve lo consiglio, sia mai che abbiate un tavolo traballante.
Mattia Pace
Titolo | Who Built the Moon?
Artista | Noel Gallagher’s High Flying Birds
Durata | 43:25
Etichetta | Sour Mash