Werner Herzog | Onoda alla fine del mondo
“Quando era a scuola Werner non imparava niente. Non leggeva i libri che gli venivano assegnati, non studiava e non sapeva ciò che ci si aspettava da lui. O almeno così pareva. In realtà, Werner sapeva sempre tutto. I suoi sensi erano incredibilmente acuti. Se sentiva un rumore, dieci anni dopo lo ricordava con precisione, ne parlava e magari lo usava in qualche modo. Ma è del tutto incapace di fornire spiegazioni. Lui sa, vede, capisce, ma non riesce a spiegare. Non è la sua natura. Ogni cosa gli penetra dentro. Se poi viene fuori di nuovo, ne esce completamente trasformata” (da Werner Herzog, “Incontri alla fine del mondo”, Minimum Fax, 2009)
L’aneddotica e l’esperienza diretta sono fondamentali, quando si parla di Werner Herzog, uno per cui il fare cinema ha più a che fare con l’atletica che con l’estetica. Per quanto riguarda me, ricorderò per sempre la sera in cui lo incontrai qui a Bologna insieme a tanti altri giovani appassionati.
Era una sera di tre anni fa, e il leggendario regista/pensatore tedesco si materializzò in una sala del cinema Odeon per presentare l’ultima fatica, Family Romance LLC. Girata per le strade del Giappone quasi solo con uno smartphone e in puro guerrilla-style, l’opera mette in scena la storia di Ishii Yuichi e della sua impresa, che offre ai clienti, dietro congruo pagamento, attori che impersonano figure importanti nella loro vita – esempio: una madre divorziata potrà assumere un figurante nel ruolo del marito, affinché la giovane figlia possa avere una figura paterna. Attenzione: la società esiste sul serio ed è gestita proprio da Ishii Yuichi ma Family Romance LLC non è un documentario, dato che il protagonista si limita a interpretare la versione di sé proposta dalla sceneggiatura di Herzog.
Alla fine della proiezione, il regista rimase a rispondere alle domande dei presenti. Un ragazzo si avvicinò, prese il microfono: non ho memoria di cosa gli chiese, ma lo fece tenendo puntata su Herzog la camera del proprio cellulare, pronto a registrare in video la sua replica e a condividerla subito dopo, immagino, su ogni profilo social a disposizione. E Herzog, che non detesta la tecnologia in sé quanto invece il ruolo di surrogato dell’esperienza che essa ha assunto, gli consigliò con gran fervore di non affidare a un device il compito di conservare memoria di un evento che evidentemente il ragazzo considerava memorabile, di non viverlo attraverso lo schermo ma piuttosto di interagire fisicamente con l’oggetto del suo interesse, che aveva proprio lì, a portata di mano.
Il ragazzo continuò a filmare, annuendo soddisfatto – che favolosa caption per quel video! – ma inconsapevole del messaggio principale di cui la poetica herzog-iana si fa carico da più di mezzo secolo, vera lotta contro “l’immaginario inadeguato della civiltà odierna”, il cui inaridimento passa per la tv e poi per Internet e rende le persone incapaci di rinnovarlo, di fantasticare visioni fresche, nuove, inaspettate. Invidio la prima volta di chiunque, con un film di Herzog: la ricerca di una verità estatica – “una trasparenza nitida, immagini che documentino segni di vita. […] Il modo di rendere trasparente quello che è occultato, che è in tutte le cose, basta scostare la cortina, e guardare ciò che sta al di là della prima apparenza” – rende unico il suo sguardo sull’abisso profondo dell’animo umano, sia nelle pellicole finzionali d’inizio carriera che in quelle documentaristiche del periodo successivo.
Ogni cosa filmata da Herzog non somiglia a nessun’altra, perché ogni singolo personaggio oggetto della sua analisi – un conquistador (Aguirre furore di Dio, 1972) o un uomo che sceglie di vivere in mezzo agli orsi fino a esserne divorato (Grizzly Man, 2005); un condannato a morte (Into the abyss, 2011) o un saltatore con gli sci (La grande estasi dell’intagliatore Steiner, 1974); un selvaggio addomesticato alla norma aristocratica (L’enigma di Kaspar Hauser, 1974) o un sognatore che trascina una nave su per una montagna (Fitzcarraldo, 1982) – e ogni paesaggio naturale in perenne mutamento – il ghiaccio antartico filmato da sotto (Encounters at the end of the world, 2007), un vulcano filmato da dentro (Dentro l’inferno, 2016), un oceano di petrolio in fiamme (Apocalisse nel deserto, 1992) – sono in grado di rivelare qualcosa su di noi. Ed è questo il modo in cui prende corpo il parallelismo con la Cappella Sistina evocato da Herzog stesso in un’intervista già citata poco sopra: “il pathos umano esisteva già da migliaia di anni, da sempre, e Michelangelo è stato colui che l’ha reso visibile per tutti noi, ed è uno dei momenti della scoperta della visione collettiva, e se il cinema arriva ad avvicinarsi in qualche modo a questo avrà un grande valore nel suo essere”.
A questa straordinaria galleria di estremismi ed estremità che hanno fatto la storia della Settima Arte si aggiunge oggi Hiroo Onoda, che Herzog racconta per iscritto in poco più di un centinaio di pagine pubblicate in Italia da Feltrinelli – in copertina, una splendida foto di Richard Mosse; nel titolo, già un manifesto: Il Crepuscolo del Mondo.
Uno degli ultimi soldati fantasma giapponesi, dopo la fine della seconda guerra mondiale Onoda rimase per ventinove anni nella giungla dell’isola filippina di Lubang, vivendo di espedienti prima in compagnia di alcuni commilitoni e poi in solitudine e tendendo imboscate agli abitanti del luogo, fino a quando non venne portato al suo cospetto il vecchio comandante Taniguchi, che gli ordinò di arrendersi. E se è facile immaginare cosa abbia portato Herzog da queste parti, vista la sua tendenza a cercare prospettive altre dalle parti degli estremi, è comunque splendido vedere quanto la sua capacità di raccontare storie radicali eppure paradigmatiche regga anche su carta – certo, mancano le sue immagini inimitabili, e non è questo il punto di partenza che consiglierei al neofita: ma se il regista avesse potuto seguire il soldato con una telecamera, sono sicuro che l’avrebbe fatto.
L’incipit, che esige una buona dose di sospensione dell’incredulità, non potrebbe essere più Herzog: invitato a incontrare l’imperatore giapponese, il nostro rifiuta dicendo che non saprebbe cosa dirgli e che quello non sarebbe altro che un vuoto scambio di formalità. Piuttosto, dice, gli interesserebbe incontrare Hiroo Onoda, piano cartesiano i cui quadranti sono fedeltà alla linea e follia, visione a tunnel e auto-addestramento sul campo. E così comincia Il Crepuscolo del Mondo, strutturato in brevi capitoletti – non si fatica a riconoscervi lo stile di alcuni fra gli ultimi film del tedesco, che, invece di concentrarsi su una narrazione estesa, preferiscono articolarsi in blocchi da pochi minuti, sviluppando senso per accumulo.
Si parte con un flash-forward al febbraio 1974, con l’incontro tra Onoda e Norio Suzuki, venuto in pace per dire come stiano le cose e invitare l’uomo alla resa; promette di tornare da Tokyo in tre settimane, Suzuki, in compagnia del vecchio superiore di Onoda, l’unica persona titolata a far vacillare una fede cieca. Quel che segue è un resoconto dal formato quasi diaristico del precedente trentennio, periodo in cui anagraficamente Onoda passa dalla post-adolescenza all’età adulta, adattandosi a ciò che la nuova vita nella giungla gli richiede, e rimane però cristallizzato negli schemi che aveva imparato a conoscere quando era giovane e poteva dirsi parte del mondo. Il periodare di Herzog, ottimamente tradotto da Nicoletta Giacon, è fatto di brevi flash, a imitare un’esistenza ridotta a un essenziale militaresco: nell’orizzonte di Onoda non c’è che la necessità di sopravvivere nell’immediato, e anche nei dialoghi con i tre sottoposti che nel tempo lo abbandoneranno – l’ultimo, Kinshichi Kozuka, morirà nel 1972 in un’imboscata – non si scorgono altro che ordini, prove di fedeltà, congetture sugli inganni degli americani, progetti per il prossimo fuoco di guerriglia. Apparentemente, però: come nei suoi migliori “incontri alla fine del mondo”, Herzog riesce a mostrare una realtà dietro la realtà, rendendo palese il brulicare della vita interiore di Onoda – brace nascosta, non spenta.
Certo, è impressionante immaginare come alcuni uomini abbiano potuto trovare la forza di resistere in simili circostanze – lavarsi, trovare cibo, riparare i propri indumenti, mantenere in buono stato armi e munizioni – ma ciò che più colpisce è l’incrollabile attaccamento a un mindset: niente, a meno di un ordine impartito da un militare di grado superiore, può smuovere Onoda dalla convinzione che il conflitto sia ancora in corso, che il Giappone non si sia arreso. In questo stato di completo isolamento dalla realtà, la Storia non aiuta: per decenni Onoda si vede passare aerei sopra la testa; ma non è mai la guerra che immagina, solo il frutto di un secolo violento – Corea e Vietnam, gli spiega Suzuki. Ironicamente, è proprio un soldato a non riuscire a comprendere la storia dell’uomo per quella che è: una successione di conflitti, distruzioni e ricostruzioni senza soluzione di continuità – tema che a Herzog, nato in una Germania pronta per essere rasa al suolo, è particolarmente caro.
Infine, il tempo: “ogni centimetro del suo piede in avanti era qualcosa che stava arrivando, ogni centimetro alle sue spalle era già il passato E avanti così, sempre più piccoli, in millimetri, in impercettibili frazioni di millimetri”. Nei gesti infinitamente ripetitivi, nei giorni e nelle notti sempre uguali a sé e immersi “nel vapore di una natura indifferente”, sparisce del tutto la possibilità di un presente, unico luogo dove si possa esperire davvero l’esistenza. Incastrato nel passato, Onoda progetta continuamente il futuro: non riesce a stare in un adesso che gli richiederebbe di arrendersi. Con grande acume, la prosa di Herzog immerge il lettore in un contingente tangibile, rivelando un poco alla volta l’inganno perpetrato da un uomo ai propri danni. Esattamente come Onoda, è solo alla fine del libro che prendiamo davvero coscienza del tempo passato, come se per l’intera durata del racconto avessimo guardato il fitto della giungla con i suoi occhi e il tumulto dentro di lui fosse diventato il nostro: “Signor maggiore, dentro di me infuria una tempesta”, dice il soldato al momento della resa.
Non è dato sapere cosa sarebbe stato de Il Crepuscolo del Mondo se alla parola scritta fosse stata accompagnata l’immagine. Anche a chi non si sia mai accostato al corpus cinematografico di Herzog risulterà però evidente la grande forza visiva di questo racconto breve: la verità estatica, per una volta, si rivela in un medium diverso dal consueto. Come sempre, però, può prendere le mosse solo dall’estremo margine del mondo.
Autore: Werner Herzog
Titolo: Il crepuscolo del mondo
Traduzione: Nicoletta Giacon
Editore: Feltrinelli
Anno: 2021