Proprio davanti a te. La musica dei Waterboys, più grande della vita
“Le registrazioni non sono condizionate dal tempo. Puoi ascoltare la musica che preferisci al mattino, di pomeriggio o nel cuore della notte. Puoi “entrare” virtualmente nei club, “sedere” nelle sale da concerto che non ti puoi permettere, andare in posti lontani oppure ascoltare gente che canta di cose che non capisci, vite che ti sono estranee, tristi o meravigliose. Nel bene e nel male, la musica registrata può essere strappata al suo contesto. Diventa il suo contesto. […] Come se, a furia di guardare la televisione, ci aspettassimo conversazioni argute e brillanti come i dialoghi delle sitcom. […] La gente non sa che neppure le registrazioni sono “reali”?” (Come funziona la musica, David Byrne)
Nelle ultime settimane – in ambito musicale, chiarisco – non ho trovato nulla di più avvilente della conversazione intorno al nuovo album di Fiona Apple, il meraviglioso Fetch The Bolt Cutters. Un diluvio di insulti all’autrice è piovuto inarrestabile dopo il perentorio “10” di Pitchfork. Che, a quanto pare, nell’era in cui si dice che chiunque scriva di musica, è ancora l’unica testata che gli ascoltatori occasionali e gli addetti ai lavori leggano con attenzione (si vede poi dalla qualità media degli articoli di questi ultimi, mi vien da dire).
Come al solito, non s’è persa occasione per evidenziare che il punto delle accesissime discussioni che si sviluppano in rete oggi non è mai il tema di cui si parla, ma il discorso in sé: un disco – come tutto il resto – sarà giudicato in base non al proprio valore, ma al modo in cui se ne parla; e ognuno cercherà di qualificare se stesso e si sforzerà di dire la propria nel modo più edgy possibile, di trovare la battuta giusta e sferzante come se questa potrà salvarlo dall’insignificanza.
Tant’è che avrei davvero voluto parlarvi di Fiona e di quel suo lavoro imperdibile, ma il fastidio è così forte che per ora non ci riesco. Però vi metto qui una canzone del disco perché è così bella da mozzare il fiato, ed è l’antipasto perfetto per il tema del giorno.
Mi sono reso conto, nell’ultimo periodo, che la musica che mi emoziona di più è quella che non sembra essere pensata per essere registrata. Dischi e canzoni e germogli sonori che danno la sensazione di essere testimoni di un’esperienza d’ascolto unica, irripetibile e per questo di importanza capitale: ti convincono di dovertici dedicare con la massima attenzione possibile perché, una volta finiti, non ci sarà alcun “Play” da premere per riavviare e riprodurre quell’esatta emozione. Era questo che Céline Sciamma – ne abbiamo parlato qui, ricordate? – riusciva a rappresentare così bene nel suo Ritratto della Ragazza in Fiamme, film ambientato in un’epoca precedente all’invenzione della registrazione dei suoni.
Non fraintendetemi: sono consapevole della lezione di David Byrne.
So che ogni cosa che ascolto è un prodotto. So che ogni artista è consapevole del fatto che la propria arte viva nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. So che le migliori registrazioni sono quelle che rendono trasparente questo inganno, che ti illudono di non essere repliche di un unico momento ma ogni volta momenti nuovi. Soprattutto, sono consapevole del fatto che la maggior parte delle cose che ho ascoltato in vita mia non me la sarei mai più ricordata se non fosse stata registrata, perché in sé non recava probabilmente le qualità necessarie a farsi ricordare per sempre.
So tutto questo, sì.
Però, di questi tempi, sono alla ricerca di musica che m’illuda di poter esistere anche al di fuori del concetto novecentesco di testimonianza sonora. Musica straordinaria che nasca proprio davanti a me, come se potessi trovarla semplicemente entrando negli appartamenti del mio condominio e trovando in ciascuno di essi qualcuno intento a creare suonando. Riscoprendo ogni volta la differenza tra chi fa il musicista e chi è un musicista.
E le composizioni di Fiona Apple mi danno l’idea di prender vita da idee che le vengono in mente mentre te ne stai a casa sua. Si alza dal divano, si siede al piano e ti dice “senti questa”; ci rimugina, mentre la suona; aggiunge e toglie note; le parole non stanno nella metrica, e allora la voce si fa nervosa, come se stesse mangiandosi le unghie mentre cerca la quadra di un pezzo che s’imbizzarrisce e non vuole essere addomesticato.
Sta in gran parte lì, credo, il fascino di un album come Fetch The Bolt Cutters: magico e istantaneo e unico proprio perché i suoi bordi taglienti e i suoi profili sconnessi sembrano non poter essere mai ripetuti uguali due volte e replicati da nessuno che non sia la Apple. Esattamente come Countless Branches è Bill Fay curvo al piano e intento a cogliere vibrazioni dalla natura intorno a sé per trasformarle in bozzetti indimenticabili; esattamente come Two Hands dei Big Thief mostra quattro ragazzi suonare come una cosa sola.
Esattamente come quel vecchio classico dei Waterboys, Fisherman’s Blues, ha il suono di una serata passata intorno a un fuoco a raccontarsi e rivelarsi a persone che non vedrai mai più.
“Dai Velvet Underground ho imparato che un contenuto di valore vince sull’abilità tecnica; il potere elementare di una canzone fatta con due accordi; la gloria nel sostenere un’unica dinamica per un intero brano; che suonare in modo non accademico ma consapevole di sé ha una sua forza e una sua grazia. Da Astral Weeks ho appreso il valore dell’atmosfera; il piacere di un contrabbasso suonato in maniera espressiva; che un arrangiamento d’archi può essere luminoso e impalpabile. Da Steve Reich ho imparato un nuovo linguaggio musicale non basato sul blues o sulla folk music celtica o americana; brevi, improvvise esplosioni d’accordi che chiamo “ostriche”; l’importanza di piccoli motivi melodici ripetuti in punti specifici, suonati apparentemente senza coinvolgimento emotivo ma con un valore emozionale dato dalla loro posizione e dal contesto.”
Che tipo, Mike Scott.
Se anche uno non avesse mai ascoltato la musica scritta e suonata con i Waterboys – di cui in quasi quarant’anni di epopea è anche l’unico membro stabile – potrebbe farsi un’idea del personaggio anche solo leggendo le serissime note di copertina che accompagnano la ristampa del suo disco più bello, This Is The Sea.
È già tutto lì dentro. Dalla sua bizzarra idea di Big Music – “la firma di Dio nel mondo”, la definiva lui; un miscuglio di romanticismo, paganesimo, pop da grandi arene, arrangiamenti debordanti e cori fuori misura, la definisco io – alla totale dedizione alla propria Musa – decine e decine di grandi canzoni scartate (chi altro lascerebbe mai fuori Beverly Penn da un album?), anni dedicati a ciascun lavoro per la gioia delle case discografiche, una girandola di musicisti diversi ad accompagnarlo ogni volta.
This Is The Sea è uno dei dischi definitivi della metà degli anni Ottanta. Uno di quelli che si riascoltano con più facilità e piacere oggi (più di Ocean Rain o The Unforgettable Fire, per rimanere nello stesso campo da gioco), e apice della prima incarnazione di una band – chiamiamo così per comodità una creatura volatile come i Waterboys – che aveva già regalato meraviglie sul quasi altrettanto riuscito A Pagan Place.
Un flusso incantatore di chitarre 12-corde e pianoforti, archi e fiati innestati su ritmiche quadratissime, in cui si percepiscono nitide intenzioni e iper-lavorazione di studio ma che danno comunque l’idea di una perfezione trovata “con le mani” – practice makes perfect, no?
A mo’ di esempio valga questa incredibile versione di The Whole Of The Moon, in cui Scott sembra inseguire il fantasma di una visione incomprensibile a chiunque altro e che solo mettendo un piede davanti all’altro – dopo strati e strati di contributi dei singoli – si fa manifesta anche agli altri musicisti coinvolti, generando un vero miracolo pop. È l’esecuzione stessa a indicare la via.
Il salto da qui a Fisherman’s Blues, a un primo ascolto, vi sembrerà quantico: del resto quello è il primo album in cui Scott sembra abbandonare il concetto di Big Music per dedicarsi a una riscoperta della tradizione folk irlandese più classica, negli stessi anni in cui i Pogues di Shane MacGowan la stavano massacrando a colpi di sputi punk e denti marci. È anche la ragione per cui da ragazzo non lo avevo abbracciato come avrei voluto: “un capolavoro”, mi dicevano tanti amici, ma io avevo bisogno di elettricità letterale e con le fisarmoniche ci avrei fatto un falò.
Il tempo mi ha dimostrato che avevo solo bisogno di tempo.
In fondo, smessi gli abiti del sabato sera e indossati quelli della domenica mattina, la grande musica dei Waterboys rimaneva sempre fedele a se stessa. Semplicemente, qui, il riferimento a Van Morrison e al suo manifesto Astral Weeks si fa preponderante in un’equazione in cui comunque le lezioni di Velvet e Reich (brani che si gonfiano lateralmente, irrigimentati in un andamento ritmico costante) restano palesi. Per definirla compiutamente, basta aggiungere l’influenza di Dylan – narrazioni fluviali su strutture semplicissime – e, come detto, lo sguardo rivolto a occidente, all’isola più vicina.
Ci vogliono tre anni per definire compiutamente questa visione ubriacante, inseguita e cercata con alcuni compagni di avventura di sempre e nuovi incontri. Lo dimostrano i centoventi brani raccolti nella ristampa in sette cd (!) pubblicata nel 2013, pazzesca operazione d’archivio che traduce in suoni la bellissima immagine di copertina: musicisti alla ricerca di qualcosa che si potrà trovare solo suonando insieme.
“Facciamo questa foto”, sembrano dire ognuno per sé, “e poi torniamo dentro: c’è da trovare una pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno”.
so cold, and as you’re about to leave
she jumps up and says, hey love, you forgot your gloves
and the loves to love to love the love
to say goodbye to Madame George
dry your eye for Madame George
wonder why for Madame George
Van Morrison è il primo nome che viene in mente, quando si ascolta Fisherman’s Blues.
Ovviamente c’è la cover di Sweet Thing a rendere esplicita la connessione con il folk/soul/blues in salsa free di Astral Weeks, ma è tutto l’approccio alla composizione e all’esecuzione di Scott e dei suoi sodali a tradire l’influenza del songwriter nordirlandese.
È musica, questa dei Waterboys, che trova in se stessa e nella propria ampiezza – sentite la frastornante doppietta d’apertura: la title-track e poi We Will Not Be Lovers, gli occhi spalancati all’universo – tutte le rivelazioni di cui sente il bisogno, anche se lo fa in un modo che a Morrison sarebbe stato impossibile. Ma è questo il bello dell’evoluzione, e pure il motivo per cui le rivoluzioni realmente disruptive sono un mito: ognuno aggiunge il proprio tassello alla Storia stando sulle spalle dei giganti, ma portandoci tutti in territori inaspettati e che i modelli non avrebbero avuto nemmeno gli strumenti per immaginare.
Non è un caso, io credo, che in entrambi gli album il brano più iconico sia pure quello più esteso.
Su Astral Weeks è Madame George a ruminare tre accordi in tondo per quasi dieci minuti. “Forse uno dei brani musicali più pieni di compassione che siano mai stati realizzati, ci mostra una drag queen innamorata e infelice con un’intensità tale che quando il cantante la ferisce, lo facciamo pure noi” (parole di Lester Bangs, non mie): un’empatia che si rinnova a ogni nuovo ascolto; un’esperienza emotiva quasi insostenibile, che sembra studiata a tavolino per colpire in ogni minimo dettaglio e in cui invece tutto – tic verbali, ripetizioni, vocalizzi – scaturisce libero in un’improvvisazione davanti al microfono. Sembra davvero un puro incidente, il fatto che sia stata registrata.
Su Fisherman una vita intera di relazioni viene racchiusa nei nove giri d’orologio di And A Bang On The Ear, che usa proprio gli stessi tre accordi (Sol, Do, Re): è la vera ragione per cui ho iniziato a raccontarvi questa storia da questa prospettiva, tredicimila battute fa, ed è anche la sua giusta conclusione.
Lindsay was my first love, she was in my class
I would have loved to take her out but I was too shy to ask
the fullness of my feeling was never made clear
but I send her my love
and a bang on the ear
“Here we go”. Se non ci si fa caso, il sussurro di Mike Scott all’inizio di And A Bang On The Ear non lo si sente neppure; ma è lì, come se l’autore sapesse che quella che sta per iniziare sarà la sua epopea definitiva. Ad accompagnarlo – mentre lui canta e si occupa di pianoforte e chitarra – ci sono cinque altri musicisti: Steve Wickham (violino), Máirtín O’Connor (fisarmonica), Anthony Thistlethwaite (hammond), Trevor Hutchinson (basso) e Jay Dee Daugherty (batteria).
Non c’è nemmeno bisogno di provarla, una progressione così semplice: sarà sufficiente iniziare a suonare insieme perché ogni strumentista trovi i dettagli giusti per materializzare davanti ai nostri occhi una storia fatta di ricordi, malinconia, (auto)ironia e speranza. And A Bang On The Ear, allora, si fa colonna sonora di un’intera vita sentimentale.
Scott la canta agli altri e questi danno una voce perfetta alla timidezza con cui il Nostro non è mai riuscito a chiedere a Lindsay, suo primo amore, di uscire insieme; all’eccitazione vissuta con Nora, la prima fidanzata, e al dolore del cuore spezzato da Deborah, la cotta di un’estate; ai cocci della convivenza con Bella e alla leggerezza dell’incontro con Krista, a San Francisco.
A ognuna di esse Scott guarda con un poco di rimpianto ma anche con affetto e gratitudine (e un buffetto sulla guancia, dice il titolo), come se tutte gli avessero insegnato qualcosa, mentre i compagni gli dipingono intorno una tela sonora da sagra di paese.
Facendogli coraggio con colori vivaci e spensierati e cercando di rimettergli in sesto il cuore, gli altri Waterboys lo prendono per mano e lo conducono fino alle soglie del presente: e lui ancora riprende il microfono per un’ultima strofa, per dire del suo amore di adesso, del sogno che rappresenta, mentre la guarda dormire un sonno lieve.
Che sia reale o solo una speranza per il futuro cantata da un uomo non ancora trentenne, importa poco; così come importa poco che la distanza fra chi canta, ciò di cui canta e il modo in cui ne canta sembri annullata, ma sia in realtà solo frutto di una di tante take di studio e non quel miracolo irripetibile e istantaneo che sembra.
Ma questo è il più bel dono dell’arte migliore: l’idea che, nascosta tra tanta rappresentazione, ci sia pure un’emozione vera, che possiamo percepire come nostra.
so my woman of the hearthfire, harbor of my soul
I watch you lightly sleeping
I sense the dream that does unfold…like gold
you to me are treasure, you to me are dear
so I’ll give you my love
and a bang on the ear
Titolo: Fisherman’s Blues
Autore: The Waterboys
Etichetta: Ensign
Anno: 1988