Cosa visitare a Bilbao oltre al Museo Guggenheim

Cosa visitare a Bilbao oltre al Museo Guggenheim

Il Guggenheim e il ragno di Bourgeois nella sovraesposizione del dopopranzo.

Buttando giù le trame del viaggio di questa estate, sono finita nell’impasse di dover scegliere tra Madrid o Bilbao come tappa successiva a Zaragoza. In un mondo ideale e senza problemi di soldi (in banca) e saldo (ferie maturate) avrei accolto entrambe le mete nel mio Cuore di Jollinvicta ma – sguardo malinconico al conto corrente – son stata costretta a selezionarne una. “Costosa”, “Bella ma nulla di che”, “Non sa / Non risponde” son solo alcuni dei commenti di qualche amico cui avevo chiesto informazioni su Bilbao. Il che non m’ ha lasciato dubbi, abituata come sono ad amare nomi, cose e città che gli altri non.

Alla stazione di Bilbao Abando, per i piu anziani ancora Estación del Norte, la prima vista che mi rapisce è la vetrata istoriata che separa l’area dei treni dall’ingresso principale, che ha quasi del sacro. La seconda cosa che colpisce sono le insegne di servizio del bar. La colazione è il Gosari. Il caffè è l’Akeita. Si avvisano i viaggiatori che il bar è chiuso l’Asteazken – il mercoledì.

Prendo subito nota che il Basco non fa parte di un immaginario linguistico noto, e che a ‘sto giro non me la caverò con quelle tre parole di spagnolo imparate alle feste Erasmus, né potrò inventare i soliti neologismi al limite della denuncia della Real Academia.

Pochi passi per realizzare che Bilbao non è solo la città del Museo Guggenheim dalle scaglie di pesce – che alla fine non avrò avuto tempo di visitare. Bilbao è anche un amore riflesso nel Nerviòn: l’architettura.

Gehry, che il Guggenheim l’ha progettato. Foster, che ha lasciato nei Fosteritos – le entrate della metro – la sua eredità più Pop. Burien, il cui Arc Rouge vedi alzando la testa mentre passi sotto il grande ragno di Bourgeois. Percorri il fiume fino ad arrivare al ponte Zubizuri – “ponte bianco” – e in un solo sollevare la testa ecco Calatrava e Isozaki, sconvolgenti come il vento che qui si fa forza a sera.

Bilbao è anche l’austerità dei palazzi della Gran Via e la decadenza del Casco Viejo con le sue Siete Calles, i palazzi colorati ma sbiaditi, i bar in cui gustare le Pintxos – le tapas, i vicoli bagnati in cui qualche targa ricorda un evento legato ad altri anni di Piombo.

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Bilbao è anche la gente di vita del barrìo San Fransisco, con le macellerie Halal, i negozi di spezie, le insegne dei Peepshow e i ragazzini che vendono fumo. Un dedalo in cui i balconcini coi peluches stesi ad asciugare si alternano ai Narcopisos, evergreen urbano delle città spagnole della crisi post duemila. Bilbao è anche La Vieja, la risposta basca alla SoHo londineseBilbi, la chiamano – coi locali hipster e i negozi di abbigliamento vintage e le gallerie d’arte. Tutti. Particolarmente. Costosi.

Bovindi nel Casco Viejo

Ma Bilbao è anche il mare. L’oceanomare, per scomodare i grandi con del facile citazionismo.

La metro a Bilbao non è capillare come altrove. Se quando per la prima volta arrivi a Parigi ci metti un quarto d’ora per capire come andare dalla Gare de Lyon a Place de Clichy, qui solo tre linee seguono il profilo del fiume. Dalla stazione centrale scelgo la linea arancione, 30 minuti, 1,80 euro per raggiungere Algorta.

Un parco giochi, dei baretti, i cartelli per il  Puerto Viejo. Una ripida discesa trasforma la strada asfaltata in un viottolo lastricato, in cui case bianchissime – infissi verdi e fiori rossi – ti catapultano nel vecchio villaggio dei pescatori di Algorta. Qui le auto non passano e l’unico suono che senti è lo stovigliare di un paio di ristoranti.

Scorci del villaggio dei Pescatori di Algorta.

Incontro Anna. Capelli cortissimi e bianchi, la pelle – il cuoio – di chi ha vissuto una vita al sole: una combo che mi fa pensare ai negativi fotografici. O a Giorgio Armani.

Mi porta sotto l’ Etxetxu, un portico che un tempo ospitava le assemblee dei pescatori e delle sardinere, le donne che pescavano e preparavano le acciughe. Mi racconta che vive qui dall’ 87. Che finita l’università, da Napoli aveva inseguito un amore che, avrebbe scoperto, a sua volta ne inseguiva parecchi – forse troppi, era tipo un centometrista della tresca, lui, e si era presto trovata da sola a dover imparare a vivere. Questo posto l’aveva colpita e ci era rimasta, rifiutando stoicamente di trasferirsi in città anche dopo sposata, anche dopo esser rimasta sola, vedova e con un tondo cane meticcio a carico che l’affianca, il pingue Ramiro.

Facciamo un pezzo di strada assieme verso la Baia di El Abra. Ci prendiamo dei caffè, e li beviamo sedute sulla scalinata che dal borgo porta alla passeggiata sul mare. A questo punto le strade si dividono: io proseguo per la spiaggia di Ereaga, lei verso il vecchio porticciolo.

Decido per un pit stop al mare. La spiaggia è così ampia che nonostante la domenica d’agosto, tra me e il vicino più vicino ci sono metri di distanza. Non ci sono abituata – io vengo dal Salento, ad agosto solo posti in piedi tipo parterre da palazzetto.

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Più tardi mi rimetto in marcia, direzione Portugalete. Supero il Molo di Arrluze, dove l’occhio cade subito sul faro della Casa de Naufragos, che sembra uscito da un film di Wes Anderson e che un tempo era la stazione di salvataggio per soccorrere navi sorprese dai banchi di sabbia. La strada scorre tra il porto di Geixo e la Axekolandeta, le cui ville eclettiche dominano la baia dall’alto. Una spiaggia deserta, gabbiani e impronte di cane. Una passeggiata di ville frontemare, skaters, runners, bagnanti in costume. Non faccio in tempo a chiedermi quanto debba esser bello un tramonto qui, che il Ponte di Vizcaya appare nell’inquadratura.

El Puente Colgante lo chiamano. Riesci a riconoscerci qualche traccia estetica della scuola di Gustave Eiffel, mentre è li’ che collega le due rive del fiume e trasporta su una gondola sospesa macchine e persone, 24 ore al giorno.

La baia di Getxo.

Una parte di me vorrebbe salire sulla passerella panoramica ma mi accontento di un paio di giri sospesi: un minuto e mezzo di traversata, un viaggio di giostra in cui guardo le facciate di Portugalete e Las arenas e mi immagino come possa essere farlo di notte, magari col freddo o la nebbia, magari col filtro in bianco e nero che applico a tutte le scene della mia vita che potenzialmente potrebbero essere tratte da un film.

E a un tratto torno coi piedi per terra, e ricomincio a camminare per tornare in centro. Domattina si parte per Bordeaux. E sono stancamente contenta, o serenamente stanca, e mi ricordo della scena di Caro Diario in cui Nanni Moretti è in barca e dice che è felice solo in mare, nel tragitto tra un’isola che ha appena lasciato e un’altra che deve ancora raggiungere.

Ilaria Molinari

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