Viet Cong | Viet Cong
Cuore di tenebra
Mi piace il rumore del rumore all’inizio di un disco.
Prroppoppoppoppoppoppò-prroppoppoppoppopoppò.
Viet Cong dei Viet Cong parte così. L’apocalisse. Adesso. Nelle vostre orecchie.
“Writhing violence essentially without distortion/ Wired silent, vanishing into the boredom/ Deliberately made to disintegrate/ Difficult existence/ Underestimated alienation./ We’re bending newspaper spoons”.
Il testo del primo brano, Newspaper Spoons, ha del programmatico. La cosa suona più o meno così: siamo apatici, violenti, alienati e siamo qui per prendere a calci nel culo le stronzate con cui siete abituati a essere imboccati. Addirittura? Addirittura, sì, e c’è da credergli: due dei quattro tizi che compongono la band hanno chiuso la precedente esperienza musicale¹ con una poco amichevole scazzottata sul palco, nel pieno di un’esibizione live. Ora sono pronti a togliersi le bende e riprendere con un nuovo progetto: il nome scelto lascia presagire intenzioni tutt’altro che pacifiche.
Viet Cong, per i lettori amanti di carne in scatola e roba da scaldare al forno microonde, è un disco post-punk. Facile, no? No. Perché anche a prendere per buona questa definizione preconfezionata, se avete una vaga idea di cosa sia il post-punk… ok, come non detto, non ce l’avete. “Già mi fa schifo il punk, figuriamoci i postumi”, starete pensando. Calma, calma. Non drammatizziamo. È facile, guardate: se non sapete cos’è il post-punk, lo sapete probabilmente più di chi dice di saperlo, visto che si tratta di un’accozzaglia della roba più disparata che in comune ha poco o niente, se non, indovinate cosa?, esatto!, venire dopo il punk. Vorrei conoscerlo il tipo che a fine anni ’70 ha coniato questa definizione. Doveva essere un bel paraculo. “Ohmmerda, sono strafatto e devo ancora recensire 154 album² per dopodomani. Come faccio? Mmm, sai che cosa? Il punk è morto, giusto? Allora questi sono tutti gruppi post-punk. Sì.” Che poi è lo stesso che qualche anno dopo si è riciclato come sceneggiatore de Gli occhi del cuore.
In ogni caso, dallo sterminato zibaldone che va sotto il grande cappello (alla Pharrell Williams, per capirci) di post-punk, i Viet Cong attingono a piene mani: gli scalcinati Devo, i combattivi Clash, i cupi Joy Division, i gotici Bauhaus, i manidiforbice Cure e i minimali Wire, per citarne solo alcuni, si danno tutti appuntamento nel disco. Alle chitarre più sferraglianti e alle percussioni più roboanti, si affiancano synth capaci di rimodulare e talvolta stravolgere lo scenario sonoro, dando vita a un mix ossessivo e dinamico di rock noioso (nel senso di noise) e psichedelia spiazzante. In questo senso, risulta ancora esemplificativo il primo brano, con il bellissimo climax sintetico (nel senso di synth) che, superato il minuto e trenta, ascende vergine dai bassifondi distorti e rumorosi. Non a torto, quindi, la musica suonata dai Viet Cong è stata definita anche “post-punk labirintico”.
Del primo, propagandistico, brano si è già detto. La seconda traccia, Pointless Experience, ci risveglia senza tanti fronzoli dal sognante tappeto musicale di un attimo prima. I Cabaret Voltaire a bordo di una Brand New Cadillac arrivano sgommando in un supermercato di Baranzate di Bollate e ci trovano Elvis al reparto surgelati, sudato e irrequieto, che infila parole senza senso, rivendica la scelta di essere stato il primo nero con la pelle bianca e, prima di rantolare al suolo, canta con voce suadente “if we’re lucky, we’ll get old and die”. O forse mi confondo ed era Nick Cave? Il tutto appena qualche secondo prima che la radio passi la canzone più bella del disco³, March of Progress: un trionfo di percussioni ciniche, rumore assortito e pad soffusi su cui a metà riproduzione, quando il 90% della popolazione mondiale ha già colpevolmente cambiato stazione, attraversano le strisce pedonali nientepopodimeno che i Beatles. Nel finale, gli Smiths, alla guida di un double-decker bus e sotto l’effetto di funghi allucinogeni, tirano sotto Paul McCartney, proprio a un passo dal marciapiede. Peccato.
In Bunker Buster, quarto brano dell’album, i Viet Cong indossano le chitarre dei Devo, più acide di una birra a fermentazione spontanea del Pajottenland, e procedono su un ritmo ossessivo, ricco di entrate oscure al Bauhaus di Northampton. “Go where, go where fluorescent primates teem and wind through/ the neon screens that scan over muted lips on Japanese ships”, il pezzo si apre con questi versi, che oltre a dare delle immagini molto curiose, mi ricordano il mio personale ultimo innamoramento: le ragazze hipster giapponesi. Rimanendo in Estremo Oriente, l’ingresso di Continental Shelf sembra cucito su misura per la scena di Lost in Translation in cui Scarlett si raggomitola contro l’enorme finestra a vetro che dà su Tokyo. Sospetto che la connessione per immagini non sia casuale, dal momento che la canzone riecheggia il repertorio dei Jesus and Mary Chain, proprio come il miele. Silhouettes è il momento più easy-listening del disco; le liriche tuttavia restano impietose e non concedono tregua all’ascoltatore, braccato da un nichilismo senza via d’uscita (“There’s no connection left in your head/ Another book of things to forget/ An overwhelming sense of regret/ Relay, reply, react, and reset”) che preclude all’inevitabile atto finale: Death.
Il brano, con i suoi undici minuti di durata, occupa un peso specifico importante nell’impalcatura concettuale e sonora dell’album: tutto è stato apparecchiato per arrivare qui, e la portata non lascia delusi. Dopo una prima parte di stampo shoegaze, il pezzo fa inversione a U nel tempo e retrocede ferocemente al proto-punk di gruppi come Troggs, Count Five e Stooges. Ma il fatto che Friedrich Nietzsche fosse una groupie dei Viet Cong non è casuale, e infatti dopo cinque minuti (cinque) di sferzate grezze, primitive e violente, si fa ciclico ritorno a un’esplosione post-punk in piena regola, in cui ogni convenzione salta definitivamente per aria (“An orbital sprawl expanded and swollen”). Un finale che per certi versi, dopo aver raggiunto un orgasmo di disperazione, oppressione e delirio, risulta quasi catartico e liberatorio; simile in questo a L’attesissimo album di scioglimento de I Cani.
La domanda che si sono posti in molti, gente che come me coltiva un vivace dibattito con se stessa evidentemente, è: ha senso, nel 2015, l’ennesimo, annichilente, disco post-punk?
La risposta, a ben vedere coerente e sincera, che danno i Viet Cong in persona è semplice: no! “Seems like we’re trying much too hard to recreate all of the same mistakes” recita, non a caso, Pointless Experience.
E allora? E allora niente. A maggior ragione che siamo qui senza uno scopo, confusi, perplessi e spaesati, almeno ascoltiamo buona musica, senza sfrucugliarci le viscere con troppe domande. A poco a poco, forse, riusciremo anche a non pretendere che sia un patetico gruppo musicale a darci delle risposte.
Ecco, se proprio devo trovare una critica da fare ai nostri, è che chiudere un album con Death, se vogliamo, è un po’ banale. Ma, del resto, ***CONTIENE SPOILER*** è così che va a finire anche per chi ascolta, bene o male.
Artista | Viet Cong
Album | Viet Cong
Anno | 2015
Etichetta | Jagjaguwar
Durata | 37 minuti
[1] La band art rock dei Women, attiva formalmente dal 2007 al 2012, anno in cui ai forti dissidi interni si somma la morte del chitarrista.
[2] No, il numero non è casuale.
[3] Non a caso la seconda meno gradita dagli utenti di Spotify. Con cui abbiamo già un conto in sospeso.
[…] quando c’era questa ragazza meravigliosa, stile jappo hipster (mi sembra che ne parlavo già qui di quanto ci sto sotto), capelli neri lunghi, occhiale vintage, labbra rosse (molto rosse), lungo […]
[…] se qua arrivate impreparati mi offendo. Vi se ne era parlato in termini entusiastici già qui di Viet Cong, l’eccezionale post-punk d’esordio dei Viet Cong. Nel disgraziato caso in cui […]