Us, la metafora sui denti di Jordan Peele
Gli specchi e la copula sono abominevoli,
perché moltiplicano e propagano il numero degli uomini
J.L. Borges
Dopo il successo di Get Out, sembra che Jordan Peele voglia specializzarsi in un genere interessante quanto pericoloso: l’horror come metafora sociale e politica (fermi tutti: l’horror e la fantascienza dovrebbero sempre esserlo, no?). A differenza degli zombie proletari di Romero, però, con il nuovo film Us, Peele ci ripete come la metafora per lui debba essere evidente. Non sottile né sottintesa (la famiglia tradizionale e disfunzionale che si “mangia” la rivoluzione culturale degli anni ’70 in Texas Chansaw Massacre), ma ben chiara fin da subito. Il regista statunitense sembra volere prendere la metafora, arrotolarla a guisa di mazza e sbattercela sui denti. Una volta. Due volte. Per poi fermarsi, chiederci se abbiamo capito, e colpirci una terza volta, per sicurezza, in piena fazza.
Appena compaiono in scena “le ombre”, i sosia dei protagonisti, il regista ci fa capire come tutto rimandi all’aspetto doppio della società americana. Nel caso avessimo problemi di comprensione, l’ombra della protagonista ce lo spiega in un lungo monologo. Avete capito ora? Per sicurezza vi bastono un’ultima volta e a domanda diretta “chi siete?” faccio rispondere: “Noi siamo americani”. La società americana borghese e di facciata cresce, è cresciuta, e forse crescerà sempre sulle spalle e a discapito di una società “sotterranea” di sfruttati. Una metafora economica, ma anche razziale. L’America deve la sua grandezza agli schiavi dimenticati, ai lavoratori sottopagati, a quegli uomini invisibile, “ombre”, che accompagnano costantemente la coscienza borghese e perbenista della middle class. Per ogni famiglia fortunata, ne esiste un’altra uguale e speculare che razzola nel fango (per permettere alla prima di essere fortunata). Benché, tuttavia, il regista provi a svincolarsi dalla questione puramente razziale (come in Get Up), per abbracciare un concetto più universale, questo salto non riesce completamente ed il focus rimane molto sul problema del razzismo in America. Non è un caso, dunque, che proprio la famiglia della protagonista riesca a combattere, mentre altri soccombono. Pur imborghesiti, scorre nelle loro vene quel sangue di schiavo di colore vessato e dedito alla sopravvivenza, pronto ad uscire in ogni istante. Un giorno o l’altro questi schiavi potrebbero (o dovrebbero?) ribellarsi, queste masse silenziose (politicamente ed economicamente) potrebbero sollevarsi e rovesciare l’ordine costituito. Ma per fare cosa? Solo di sfuggita ed in maniera oltremodo grottesca, Peele sfiora anche il concetto di libertà, nelle grottesche scene finali. Chi non è mai stato libero, è capace di gestire la libertà (“Ai cappelli”, diceva Verga)?
Una volta chiara la metafora-bastone (“chiara, no? Madonna, al prossimo colpo ve la spacco quella testa!” calmo Jordan, calmo. Non serve prendersela tanto. Quando fai così mi sembri Spike Lee), possiamo riempire tutti gli spazi con un horror di altissimo livello, stratificato su più piani e visivamente eccellente. Questo approccio alla metafora permette di superare i limiti (ed i pericoli) del film esclusivamente costruito su di essa, regalandoci un film godibilissimo per ogni palato. La regia di Peele si dimostra ottima e capace di creare fin dalle prime scena un alto livello di tensione. I riferimenti cinematografici sono chiari. La sequenza iniziale del luna park è figlia dell’horror anni ’80. Di nuovo, ci viene mostrato tutto in primissimo piano, ad altezza bambina: a fianco della televisione con cui si apre il film, fanno bella mostra alcuni film dell’epoca, fra cui C.H.U.D., che parla di creature che vivono nei tunnel sotto New York (“Tunnel, chiaro? Sotto l’America, chiaro???”). La scena si sposta poi ai giorni nostri, con un viaggio in macchina che strizza l’occhio alle scene iniziali di Shining (e niente, quando ci libereremo di Kubrick, sarà troppo tardi). Il film prosegue come uno dei migliori home-invasion degli ultimi anni, fino a sembrare la versione notturna di Funny Games di Haneke (e senza avere nulla a che fare con La Notte “occasione-sprecata” del Giudizio), per poi virare verso qualcosa di totalmente diverso ed ibrido nell’assurdo, mattissimo, finale. E l’assurdo è proprio l’unica cifra capace di rompere la tensione che Peele costruisce. Non ci sono veri momenti di rilassamento, dopo che il meccanismo è stato messo in moto, ma la tensione si accumula fino ad uscire in grotteschi scoppi di ilarità sia fra i protagonisti che nel pubblico (splendido il dialogo dedicato a “Mamma ho perso l’aereo”, con intorno un discreto numero di cadaveri).
I livelli interpretativi e simbolici sono molti. Fin da subito gli specchi e le ombre sono protagonisti della scena. Lo specchio riflette e moltiplica, ma pone anche dubbi sulla percezione di sé. Il problema centrale è quello dell’identità, del riflesso: chi è la persona che vediamo nello specchio? Siamo noi o qualcun altro? Sul tema dello specchio si inserisce l’idea anche psicoanalitica del Doppelgänger, il doppio proiezione dell’io descritto da Freud e considerato uno dei fondamenti dell’idea di “perturbante” (molto utilizzato negli horror, ma non solo). È l’identità che sdoppiandosi viene meno, perde i suoi connotati di unicità, e necessita di un cambiamento. Jung, al contrario, non parla di doppio, ma di ombre: l’Ombra è vicina all’uomo e ne cela l’inaccettabile, è cioè la figura archetipica dell’inconscio o del rimosso (a cui si fa più volte riferimento durante il film, soprattutto nei flashback della protagonista e nel suo PTSD). Jung inoltre pone l’Ombra come contraltare necessario del bene: essa esiste solo in presenza di luce (il bene, appunto), e rappresenta nell’uomo quei pensieri e quei comportamenti che vengono (per ragioni personali e sociali) ignorati, nascosti o disconosciuti. Di questi fanno parte anche quei comportamenti istintivi, a tratti primordiali (per Jung rimaniamo sotto sotto selvaggi, anche se inseriti nella società), che proprio la famiglia protagonista di Us è chiamata a riscoprire per sopravvivere. Per “uccidere” l’ombra bisogna in qualche maniera incamerarla, riconoscerla come parte di noi e usare alcuni dei comportamenti ad essa legati. Per uccidere l’ombra, bisogna anche uccidere noi stessi.
Queste influenze profonde, tuttavia, non appesantiscono la visione che rimane una bellissima esperienza visiva per chiunque, sia per chi cerca solo un horror, che per coloro a cui piace scendere nella tana dal bianconiglio (pun slightly intended) o salire dalla visione “di pancia” a quella “di testa”. La regia di Peele in questo è magistrale ed è accompagnata da una interpretazione superlativa di Lupita Nyong’o, che interpreta contemporaneamente la protagonista ed il suo doppio. Il suo lavoro col corpo e con la voce è incredibile: si dimostra capace di cambiare completamente sia i movimenti che l’intonazione, fino ad interpretare due caratteri opposti (quanto, si vedrà, complementari) e di mescolarli nel finale.
Resta solo una questione aperta. Riuscirà Peele a svincolarsi (prima o poi) dalla questione razziale americana o rimarrà questo il fulcro del suo processo creativo? In ogni caso, avercene di horror, di attrici e di metafore sui denti come questa!