“Unorthodox” e “One Of Us” | Due sguardi complementari sugli ebrei chassidici di New York
"Unorthodox" e "One Of Us". La serie basata su una storia vera da un lato, la realtà nuda e cruda dall'altro. La necessità di una visione complessiva, in un viaggio dentro e fuori dal mondo degli ebrei chassidici, gli ultraortodossi di New York.
Succede che stiamo vivendo il più grande (e necessario) esperimento di isolamento sociale che l’umanità ricordi.
E succede che proprio in questo momento una serie tv – “Unorthodox” – ambientata in una delle comunità più isolate dal resto del mondo, si trasformi in un fenomeno virale e discusso.
È una curiosità innocente e necessaria quella che ci porta a voler spiare dal buco della serratura chi, nell’isolamento, ci è nato. È una curiosità giornalistica e speculativa, nel senso prettamente scientifico del termine.
È il desiderio di voler fare un viaggio all’interno di uno dei luoghi più impenetrabili del mondo. Un luogo che è nel cuore di una delle metropoli più note. La comunità degli ebrei chassidici. Gli ultraortodossi di New York. A Williamsburg, Brooklin. Sulla sponda opposta rispetto all’East Village.
Una comunità quasi spazzata via dall’Olocausto, i cui pochi superstiti decisero di stabilirsi a Brooklyn nella fortissima convinzione che per ricostruire ciò che il nazismo aveva distrutto, avrebbero dovuto isolarsi completamente dal mondo esterno. Vivere in un’epoca storica congelata. Senza internet. Senza telefono. Senza molta della scienza. Senza certe parole. Regole e divieti. Imperativi mistici. Sessualità meccanica e calendarizzata allo scopo di procreare. Di ricostituire, appunto.
È lì che approda un viaggio che percorriamo a ritroso. Un cammino che inizia da una fiction (solo apparentemente tale) e sbatte poi contro la realtà nuda, cruda e potente.
“Unorthodox” è la mini serie made in Netflix, creata da Alexa Karolinski e Anna Winger.
“One of us” è, invece, il documentario sempre Netflix prodotto nel 2017 da Heidi Ewing e Rachel Grady.
Partiamo, appunto, dalla serie. “Unorthodox” origina dall’omonima autobiografia di Deborah Friedman, la storia di una ragazza che lascia la comunità per fuggire a Berlino.
“Sei scappata, vero?”
“Lo fai suonare come se fossi in prigione”
“Perché te ne sei andata?”
“Dio si aspettava troppo da me”
Esty nasce in una famiglia ultraortodossa disfunzionale. La madre è già a Berlino da anni, in fuga da un padre alcolista e da una dimensione che non contemplava la sua vera natura.
Come per ogni figlia della comunità chassidica, Esty non conoscerà l’amore ma il gelo di un accordo.
La suocera la incontrerà per la prima volta in un supermercato, senza riconoscerne il volto. L’anonima valutazione del prodotto scelto. “Cammina e sorridi”.
Il futuro marito lo conoscerà a decisione presa dalle rispettive famiglie. I boccoli che ancora circondano il suo volto infantile.
Esty è una bambina che si fa delle domande. Che cerca delle risposte. È una di quelle pedine impazzite che mandano in tilt il sistema dell’enclave.
Ma Esty è anche l’entusiasmo di chi è cresciuto senza sapere nulla della realtà. Senza sapere cosa accada oltre le mura di Williamsburg, cosa sono un telefono o un video su internet. Così Esty alterna agli interrogativi che si fanno spazio nella sua mente come dolorosissime lame di luce, le grida sincere di felicità alla fine del rito del matrimonio.
Esty non sa che quello scoppio che mette fine alla cerimonia religiosa è il suono del deflagrare dei suoi ultimi istanti di innocenza. Da lì il suo ruolo sarà quello di occuparsi del marito e della comunità: fare figli. Con dolore. A partire dall’atto.
Ed è quel male che si allarga dalla notte al giorno a spingerla definitivamente alla fuga.
Nessuno, però, può lasciare la comunità. Così, scoperto il piano, il rabbino mette in campo ogni mezzo, spedendo a Berlino il marito Yanky (Amit Rahav) e suo cugino Moische (Jeff Wilbusch). Ma è troppo tardi, perché Esty ha già capitolato alla realtà che le era stata tenuta nascosta da una vita. Una scena fotograficamente eccelsa, quella in cui abbandona la parrucca che copre i capelli brutalmente tagliati dopo le nozze, come dogma comanda.
Esty è magistralmente interpretata da Shira Haas. C’è poco da dire: è oltre la perfezione.
Così come perfette al limite del documentaristico sono le ricostruzioni della comunità e dei suoi riti. Dei suoi silenzi. Delle sue omertà. Delle sue maglie che sanno solo restringersi.
Si percepisce tutta l’atmosfera che le creatrici della serie hanno voluto respirare nei loro tre viaggi intorno alla comunità, effettuati prima di avventurarsi nella serie.
Meno perfetta, in “Unorthodox”, è invece la trama. Se nel racconto della vita a New York tiene incollati, nel passaggio alla realtà berlinese si perde in qualche leggerezza. È guardando il dietro le quinte però che si scopre che è proprio a Berlino che la serie si allontana dalla narrazione del libro.
Si vede.
Perché l’abbandono di un’enclave così chiusa è un’esperienza di dolore. Di coraggio. Il riscatto è un traguardo. Il percorso è spinoso quando non pericoloso.
Ed ecco, appunto, a completare questo viaggio è la realtà nuda, cruda e potente contro la quale ci fa sbattere la visione del documentario Netflix “One of us“.
“One of us” si basa sul racconto reale di tre persone che sono fuoriuscite e squarcia il velo sulla comunità chassidica di New York.
Tre momenti diversi della fuga. Lo stesso dolore, declinato in modi differenti.
La cosa incredibile di questo documentario è proprio nell’accesso intimo, unico e probabilmente irripetibile alle storie dei fuoriusciti.
“One of us”, infatti, racconta in presa diretta la lotta di Ari, Luzer ed Etty per emanciparsi. Per arrivare nel nostro mondo. Che è quello nel quale, inconsapevolmente, hanno sempre vissuto senza sapere che esistesse davvero.
Tutti e tre sono fuggiti in seguito a dei traumi per poi affrontarne un’infinita serie. Uscire significa abbandonare tutto. L’aiuto sociale ed economico della comunità. I familiari in senso largo del termine, che sono il microcosmo ed anche il macrocosmo dell’immaginario pre-fuga. L’unico mondo ritenuto possibile.
Significa abbandonare i figli. Perché sì, come è ben mostrato in Unorthodox nel tentativo di recupero di Esty a Berlino, le maglie della comunità si restringono appena provi ad allontanarti, ma, soprattutto, la comunità non lascia da solo chi è in difficoltà.
Peccato che in difficoltà non è chi affronta il dolore per la separazione. Dal loro punto di vista, in difficoltà è la famiglia abbandonata dal fuoriuscito. Il marito lasciato dalla moglie in fuga. Così, in un sistema micidiale, la comunità assume gli avvocati più potenti della città per poter gestire le cause di divorzio ed affidamento dei figli. I giudici, spesso, assecondano le richieste della comunità e la madre in fuga si trova a perdere la custodia dei propri bambini.
“La legge qui non vale“ racconta una delle protagoniste.
L’abbandono dell’isolamento porta a un senso di smarrimento che disorienta e, se non accompagnato, sfocia nella ricerca di nuove dipendenze.
Ingenui bambini nel corpo di adulti, tagliano i tradizionali boccoli che cadono accanto all’orecchio, rimuovono le parrucche che coprono teste di peli schiacciati, e si trovano nel vortice della nostra realtà. Disarmati.
Chi ha provato a lasciare una comunità dal vago sapore settario, magari in giovane età, sa cosa significa sbattere una porta contro una realtà che fino a quel momento ti ha fatto sentire protetto. Sa quanto possono essere taglienti gli sguardi di chi non capisce le tue ragioni. Sa quanto possono impattare su una giovane coscienza i giudizi di un membro più anziano.
“One of us” mostra tutto questo, all’ennesima potenza, ma senza mai eccedere nel pietismo. Non c’è indugio sul dolore che travalichi la realtà stessa e profonda di quel sentimento. Non c’è invito a giudicare. Non c’è morale finale.
“One of us” lascia che a raccontarsi siano i protagonisti. Dal momento della loro scoperta a quello della perdita.
“I membri sono come degli immigrati, con la differenza che si tratta di immigrati nel Paese di cui sono ufficialmente cittadini” (Lani Santo, membro dell’associazione Footsteps che assiste chi lascia la comunità).
Perché fuggire significa anche perdersi.
La vita nuova è un guadagno frutto di una rinascita lenta e travagliata.
“La verità è che loro hanno uno scopo, un significato. Io resterò sempre alla ricerca (del mio, ndr)” dice uno dei protagonisti del documentario.
Ecco. Credo che la visione di “One of us” completi, seppur prodotta precedentemente, la visione di “Unorthodox” che, a sua volta, con le sue ricostruzioni dei riti, restituisce ciò che inevitabilmente il documentario non può sempre dare.
Una visione complementare e la consapevolezza che no, non è un film.
È la realtà, in una delle sue più incredibili sfumature.