Una giornata in Thailandia
Tra serpenti, polli e noodle-shop
Alle pendici dei monti Sankambeng, la piana di Khorat si stende in tutta la sua umile magnificenza novembrina: né il caldo torrido d’aprile né il freddo non indifferente di gennaio, ha da poco smesso di piovere e il verde smeraldo delle risaie è ora al suo apice.
Abituato alla nostra classificazione mediterranea delle stagioni, mi è difficile comprendere un clima influenzato esclusivamente dal monsone che arriverà a giugno. Un autunno che pare più simile alla primavera mi confonde, ma tant’è, e non posso fare altro che ammirarne la bellezza.
È più o meno questo quello che penso mentre parcheggio il motorino ai bordi di una risaia. Mi preparo a lavorare e penso anche che esistano lavori peggiori che seguire i serpenti nelle campagne thailandesi.
Estraggo l’antenna dallo zaino, la collego al ricevitore e aspetto il beep dato dalla trasmittente che i serpenti portano impiantata così che noi ne possiamo registrare la posizione per studiarne spostamenti ed abitudini. Prima ancora di cominciare i bambini arrivano a frotte urlando e ridendo; quelli più grandicelli, che magari vanno a scuola, accennano un timido “snake?” e mi guardano cercando risposte. Sanno che quei ragazzi occidentali che girano per i loro campi gli possono dire dove sono i serpenti e quindi dove non andare a giocare. Non gli interessa come o perché loro lo sappiano; molto meglio volare con l’immaginazione, fantasticando di stregoni di terre lontane che parlano con i rettili.
I vecchi cercano di carpire le stesse informazioni ma a differenza dei bambini iniziano a sciorinare frasi in thailandese – ben oltre qualsiasi mia possibile abilità interpretativa – a cui io, data l’inutilità di rispondere in inglese e sapendo bene o male l’andazzo della discussione, decido puntualmente di replicare in napoletano.
La commedia dell’arte è il nostro vero export e questa farsa alla Totò e Peppino incoraggia le discussioni anziché impedirle. Alcuni vecchi, presi bene dalle sonoritá partenopee, si profondono in ampie discettazioni sulla loro vita, accompagnandosi con gesti secondo loro chiarificatori quando invece trasformano il tutto in una partita al gioco dei mimi livello avanzato. Ancora oggi non so se una signora mi stesse raccontando di quando trovò un serpente nel pollaio o di come il marito le abbia chiesto la mano.
Conclusasi la faccenda, riaccendo il motorino e imbocco la Statale 304. Contromano lungo la corsia d’emergenza, giusto il tempo di arrivare allo svincolo che serve a me altrimenti avrei dovuto fare un giro infinito. Non è permesso, ma tollerato. Il traffico è forse la vera chiave per capire l’Asia: un’equazione irrisolvibile secondo la matematica di noi occidentali, una bolgia inspiegabile eppure a modo suo funzionante, separata dall’anarchia da quel minimo di buonsenso – forse è solo spirito di autoconservazione – che gli uomini hanno. Con un po’ di fantasia (altro dono di cui sarò sempre grato a Napoli) riesco a cavarmela e ho molti più problemi con i polli – quelli il buonsenso non sanno manco cosa sia – che con gli altri guidatori.
Dopo pochi metri entro nel villaggio di Wang Nam Khiao…o era Udom Sap? O Nong Samong? La toponomastica thailandese è meravigliosamente arbitraria. Le case, sparse nelle campagne in maniera frammentaria, appartengono a una o all’altra comunità secondo criteri a me estranei. Confuso non solo dalle stagioni ma anche dalla geografia, dopo tre mesi ancora non so esattamente dove mi trovo, né nello spazio né nel tempo.
Nonostante la confusione, conosco comunque la strada e attraversato quest’accidentato mosaico di case, pollai, meccanici, templi e bancarelle, mi ritrovo di fronte uno dei tanti noodle-shop che crescono lungo la statale come veraci autogrill. Mi restano ancora un paio d’ore di luce e decido di fermarmi per uno spuntino veloce. Arraffo una birretta che con questo caldo è un’illusoria benedizione, mi siedo e ordino una zuppa di noodle larghi come pappardelle, polpette di credo maiale e straccetti di credo manzo. La proprietaria – un’anziana signora – ha oramai imparato a interagire con i numerosi farang, gli stranieri, che lavorano qui e si riversano regolarmente alla sua mensa. Io dal canto mio ho imparato quanto mi basta per portare avanti l’ordinazione in un thailandese imbastardito. Mangio, saluto Egg – uno dei tanti cani semi-randagi che bazzicano questi posti elemosinando coccole e cibo – pago (conto: 3 €, tutto incluso) e riparto.
Mi rimane ancora un serpente da trovare. Questo qua vive nella foresta e me lo sono tenuto per ultimo apposta. Mi addentro tra gli alberi sapendo che la luce del sole mi potrà accompagnare solo per poco. Poi caleranno le ombre, e la foresta cambierà veste.
È una foresta dura quella che mi circonda, abituata all’inclemenza, senza muschi e felci ad infiocchettare gli alberi. Il colore dominante è il marrone di tronchi aspri e spartani, con foglie spesso trasformatesi in spine per non dissipare l’acqua durante la siccità. Non è un paradiso lussureggiante ma un luogo di tetra austerità, una cattedrale romanica contrapposta al barocchismo della foresta equatoriale.
Eppure la sensazione che ho percorrendola mentre cala il buio è la stessa; dopo anni mi risento a casa. Avete mai camminato da soli di notte in una foresta? È un’esperienza primigenia, la cosa più simile ad un viaggio a ritroso lungo la scala evolutiva. Siamo mammiferi, nasciamo come notturni abitatori delle foreste ed è solo camminando di notte tra gli alberi che riesco a ritrovare le radici, a ballare in intimità con quella cosa misteriosa chiamata “vita”.
Nasciamo notturni certo, ma nasciamo anche prede e la sensazione di essere comunque in un ambiente che non riusciremo mai a dominare è permeante. Sono anni che su queste colline non riecheggia più il ruggito della tigre (anche se qualche contadino ogni tanto sostiene il contrario), eppure non sapere nulla di ciò che si cela oltre il cono di luce della torcia permette alla fantasia di viaggiare e a mondi di nascere.
È oltre quella luce che vivono gli spiriti della foresta. Lì ogni suono cela due storie: quella reale non la posso conoscere – il tempo di muovere la torcia ed è tutto già finito – e mi limito quindi a immaginare, come facevano i bambini della risaia. Esistono ancora luoghi in cui il mondo del vero ha la sua rivincita su quello del reale; la foresta è uno di quelli.
Beep.
Quel suono acuto mi riporta alla realtà. Lui è lì da qualche parte e dopo alcuni minuti di ricerca, eccolo! riparato sotto un tronco, con solo alcune spire e la testa a fare capolino. Le squame luccicano nella penombra del sottobosco e il suo corpo sembra una corda di seta e metallo. Evidentemente mi sono avvicintato troppo rapidamente e, più sorpreso lui di me da quest’incontro, solleva la testa rivelando un profilo che ho imparato a conoscere ma che non smetterà mai d’incantarmi. Il cobra è davvero il re dei serpenti e quel cappuccio che gli cinge il capo ne è la corona. Capisco il messaggio e mi fermo, immobile resto ad ammirarlo. Come sibilava Kaa ne Il libro della jungla “solo gli occhi senza palpebre sono sinceri” e così non riesco ad abbassare lo sguardo dal suo, tanto fiero quanto curioso. Appurato che non sono un pericolo, si rilassa e ammaina il cappuccio ritornando ad assumere le sembianze di ogni altro serpente, come un re che si traveste tra i suoi sudditi. Fa saettare un’ultima volta la lingua da rabdomante per sondare l’aria, poi si ritira nel suo buco senza far rumore.
Beep.