Una cosa divertente che non farò mai più | David Foster Wallace
Estate, caldo, caldissimo: siete imperfetti, toglietevi di dosso gran parte dei vestiti e gran parte del pudore. Giratevi, guardatevi intorno, in ogni possibile direzione a vostra disposizione: ecco a voi l’imbarazzo nello scoprire l’altrui imperfezione senza alcun timore esposta e particolarmente simile alla vostra appena avrete tempo di acquisirne conoscenza (vi ci vorranno pochissimi secondi, iniziate a contare lentamente).
Voi siete perfettamene gli altri e non siete gli unici, è capitato anche a David Foster Wallace, durante il suo esperimento a metà tra l’osservazione partecipante e lo spirito da reporter in attivo riposo. A bordo della Zenith destinata al pacchetto “7 notti ai Caraibi”, Wallace, in missione per la rivista Harper’s, orgogliosamente sprovvisto di macchina fotografica, osserva, partecipa, cataloga e scrive ovunque e in ogni momento. Scrive quello che vede e la maggior parte delle cose che vede semplicemente lo imbarazzano perché, probabilmente, non fanno che ricordargli sé stesso e il suo ruolo da vacanziero tremendamente meritevole di tutti i comfort possibili con probabile senso di colpa finale, quando le luci si spengono per un (si spera) breve momento di ritorno a sé stessi, soli, immancabilmente.
Imperfezioni di corpi malati, plastificati, scarsi o eccedenti, terrificanti sorrisi plastici sui quali galleggiare comodamente e al sicuro, sudorazioni a profusione, divertimento cercasi e infantile desiderio, mai pienamente soddisfatto, di farsi viziare (sonori guaiti d’insoddisfazione, e non intenzionati a cessare, inclusi finché si avvertirà mancanza della propria richiesta) fino alla paranoia: sì, l’occhio di Wallace sembra far emergere come caratteristica comune del frequentatore di navi da crociera medio un’immaturità e regressione temporale che non è concessa alla vita quotidiana e del cui desiderio, ricerca e ottenimento non sembra (forse fingendo, forse no) vergognarsi. Viva l’esibizione.
Ma quando l’isterico divertimento tabellonisticamente organizzato finisce, cosa rimane? C’è posto, sulla Zenith per essere davvero se stessi e misurarsi con le proprie insoddisfazioni?
Non per Wallace, che sembra ricrollare nella sua turbinosa disperazione non appena si trova solo, nel suo comodissimo letto di una galleggiante stanza extralusso, in assenza di qualsiasi fastidiosa e affascinante dermatite altrui che lo possa distrarre dall’ingombrante e incancellabile peso di essere David Foster Wallace, in una situazione che non sembra essergli famigliare e che, paradossalmente, lo fa star male per la colpevole voglia di amalgamarsi ad essa in un vortice, sfortunatamente, temporaneo e doloroso alla sua dipartita.
Ma è colpa mia o degli altri che non riescono a imbarazzarsi di quello che sono e dei loro superflui corpi e desideri? Questa vacanza, tregua dalle cose sgradevoli, non è anch’essa tremendamente ancor più sgradevole? Wallace non giudica, in realtà, lui stesso si sente un probabile anonimo protagonista tra i protagonisti nella massa di naviganti, allo stesso tempo ne fa parte e si estranea, riuscendo a vedere e descrivere il tutto nella sua interezza vuota, traboccante, trasparente e multicolore, il tutto in un unico perenne sguardo annotato persino sui fazzolettini lucidi e apparentemente impermeabili dell’area ristoro. Uno dopo l’altro. Un piede fuori, uno dentro.
Wallace, proprio lui che mai prima d’ora ha messo piede sull’oceano, per lui emblema di profondo vuoto e invincibile romantico e romanzesco terrore, e ora, proprio qui, non si arrende alla nevrotica ricerca di divertimento: una rapida occhiata al tabellone è sufficiente per impedire qualsiasi scelta e nominare dei possibili eliminati dalle liste di divertimenti, resta solo da provare tutto quello che viene offerto. Le tre relazioni sulla vicenda di Moby Dick in cui il mozzo Pip cade in mare impazzendo rendendosi conto del vuoto immenso in cui si trova a galleggiare, sono lontanissimi ricordi, ormai. Non c’è più nessun timore e l’oceano non è ormai che acqua e sale, assolutamente niente pesci: si può smettere di pensare anche sopra di esso, nella sua, ora, rassicurante culla in perenne e impercettibile movimento.
Si aprono le danze, ed ecco Wallace pronto a danzare ondeggiando con i ritmi odiati in gioventù, e che oggi hanno tutto un altro sapore, quello del ricordo, seppur di qualcosa che tuttora detesta e noi detestiamo con lui.
Innumerevoli note comodamente poste a piè di pagina e numerose partite a scacchi, dialoghi veri o presunti con gli ingenuamente insoddisfatti commensali e rinfrescanti buffonate in piscina, sudaticci tornei sportivi, e creme iper-protettive, imbarazzanti sketch e ipnotizzatori, improvvisati e stonati karaoke e meditazioni meditazioni e meditazioni, ma in tutto questo, Wallace sembra, nonostante la sua inequivocabile lucidità, non avere idea di cosa stia succedendo. In ogni modo, le scelte sono innumerevoli e possiamo consolarci sapendo che è impossibile non fare niente. Divertiamoci, quindi, almeno un po’.
titolo | Una cosa divertente che non farò mai più
autore | David Foster Wallace
editore | Minimum Fax
anno | 1998
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