Quali libri associare all’ascolto della musica di Cosmo?
Il Festival di Sanremo si è difeso bene quest’anno. L’unica cosa che non capisco è perchè in Italia ci ostiniamo ad ignorare gli artisti che sono contemporaneamente BRAVI e GIOVANI.
Questo è quello che io, e immagino molti altri che di musica non sanno una mazza ma a cui piace sentenziare, hanno pensato ascoltando il puggile-rapper di Napoli o Lodovica Comello (lascio perdere Al Bano e Ron perché rispetto la loro scelta di affrontare un percorso pionieristico come la criogenesi).
E così, sdraiata sul divano, guardavo Sanremo, ipnotizzata dal bacino di Ricky Martin, e mi chiedevo perchè a Sanremo non invitino mai gente tipo Motta o Cosmo.
Per chi non lo conoscesse, Cosmo (Marco Jacopo Bianchi), classe 1982, è un cantautore italiano che è in giro da un bel po’, ma solo ultimamente è arrivato ALLA RIBALTA (e con “alla ribalta” intendo nella mia libreria di Spotify).
Non solo Cosmo fa delle super canzoni, ma sembra anche che prima di comporle sia venuto a dare una sbirciatina nella mia libreria. In particolare, ho ragione di credere che mi abbia rubato i seguenti romanzi:
(Per Marco, se mi leggi: non sono arrabbiata, ma la prossima volta avvisami che ti faccio un caffettino)
Il segreto del bosco vecchio
Dino Buzzati
Quando parte Ho visto un dio, seconda traccia dell’album Disordine di Cosmo del 2013, vado a controllare se ho ancora la mia copia di Il segreto del bosco vecchio, il secondo romanzo breve di Dino Buzzati.
La grande qualità di Buzzati è non essere mai uguale a se stesso: questa folle storia di alberi parlanti non ha nulla a che fare con Il deserto dei tartari, il quale a sua volta ha poco da spartire con Un amore (del quale prima o poi dovremo parlare, perché a Nabokov gli fa una pippa).
Il segreto del bosco vecchio racconta il mistero che avvolge il Bosco Vecchio, la foresta ai margini di Valle di Fondo popolata dai Geni, i custodi degli alberi. L’incolumità della foresta è minacciata da Sebastiano Procolo, cinico colonnello impensione che sogna di abbattere il Bosco Vecchio per arricchirsi.
Il genio del libro è quello romano, quello che il giardiniere Jorn De Precy in E il giardino creò l’uomo definisce così:
I Romani, per parte loro, erano convinti che ogni luogo fosse abitato da un genio, un genius loci, divinità minore garante dell’identità del luogo stesso, della sua singolarità. Nullus enim locus sine genio est, diceva il poeta Servio, “Non vi è luogo senza genio”. […] Oggi, con condiscendenza sfumata di disprezzo, chiamiamo questa visione sacra del mondo “animismo”. I nostri filosofi patentati spiegano che, in una società civilizzata come la nostra, essa non gode più di cittadinanza. Ci rammentiamo che la ragione, dopo due o tre secoli di battaglie, ha finalmente trionfato sulla credulità, la luce sulle tenebre e via discorrendo. Non saremo certo tanto folli da voler tornare sui nostri passi! […] Niente più dei per noi, quindi.
Pazzesco. Dubito che Jorn de Precy avesse letto Buzzati, ma coglie perfettamente il senso di questo libro: una fiaba amara del genio contro l’uomo, del luogo (con anima) contro il non-luogo (senza genio).
L’uomo, che a noi sembra la cosa più naturale del mondo, procede a passo spedito verso la distruzione di tutto ciò che è natura. E quindi tocca al genio di un albero, il Bernardi, assumere sembianze di uomo per poter difendere il bosco, che il nuovo proprietario, Sebastiano Procolo, minaccia di abbattere. La violenza fine a se stessa di quest’uomo, se questo è un uomo, calpesta ogni forma vivente: la foresta, il vento Matteo, e perfino il nipote. Solo la natura animata e animista del Bosco riesce ad impedire la morte e la distruzione della Vita. Se non è Dio questo…
Ho visto un dio
dentro ai boschi
Dai, il ritornello di Cosmo fa subito genius loci.
…ok, dice anche “e nelle droghe più incredibili”, ma qualcosa ti devi pur essere fatto per parlare con gli alberi e tutto quanto. Quindi ci sta.
ho bruciato da un po’ il buonsenso
dare un corpo ad un idea
dominare le distese
disegnare degli errori
poi salvarsi per un soffio
darsi slancio li dal fondo
Il nipote di Sebastiano Procolo rotola per la Valle di Fondo, spinto dagli sbuffi del vento Matteo e salvandosi, letteralmente, per un soffio.
Dino, ci sarai mica anche tu al al live di Cosmo giovedì sera?
Le voci del mondo
Robert Schneider
Sento le voci, sì, mi sento chiamare
Dalle mie fantasie, dal profondo del mare
Così come Cosmo sente Le voci, brano che apre il nuovo disco, così anche il povero Elias Adler sente Le voci del mondo nel romanzo di Robert Schneider.
Elias Adler è un bambino prodigio della musica, destinato a diventare il più grande organista del mondo (detto così sembra una pizza, ma in realtà è un libro molto avvincente, nonostante gli organi e tutta l’atmosfera gotica), se solo non fosse nato in un paesino austriaco dimenticato da dio all’inizio dell’Ottocento. Anzi, quella che nel mondo “evoluto” sarebbe una dote, nel paesino di Elias è una maledizione: la sua ipersensibilità musicale comincia a deformarlo nel corpo, la sua capacità di sentire, riconoscere ed imitare tutte le voci lo porta a diventare il matto del villaggio e a patire sofferenze infinite. Troppo particolare per un paese così ordinario:
Un dottore
Chiamate un dottore
Qui c’è un ragazzo che muore affogato nella palude del nazional-popolare
Elias Adler, come tutti i misfit, è destinato alla solitudine, alla repressione dei suoi sogni inconfessabili, che lo attireranno in una spirale cupa ed inevitabile.
Sento le voci, sì, mi sento chiamare
[…]
Dal silenzio dei sogni inconfessabili
La scopa del sistema
David Foster Wallace
Dopo Wittgenstein, Cosmo mi deve ridare la mia copia di La scopa del sistema, di David Foster Wallace.
Già dal titolo non si può non pensare alla bisnonna di Lenore, perno di tutto il romanzo, matta, allieva di Wittgenstein e quindi amante del linguaggio, che sparisce di punto in bianco.
Vi ricorda qualcuno? Sì, anche secondo me è un alter ego di DFW.
La bisnonna wittgensteiniana ha sempre cercato di convincere Lenore, nipote e protagonista del romanzo, del ruolo funzionale delle parole, del fatto che la realtà esiste solo in riferimento a quanto di lei può essere raccontato (“Non ti parte la macchina? E un problema di linguaggio. Sei incapace di amare? Sono le spire del linguaggio. Hai il raffreddore? Semplice: costipazione di sedimenti linguistici”.)
E se c’è uno che ha sempre avuto un’attenzione spasmodica per il linguaggio è proprio DFW.
Per un po’ DFW aveva seguito le orme del padre filosofo, che si era formato presso gli allievi diretti di Wittgenstein.
Tutto il romanzo è giocato su questo attributo funzionale dato al linguaggio, che però, paradossalmente, conduce ad infiniti dialoghi ed elucubrazioni che portano… a niente. Proprio a niente.
C’è in particolare un episodio tra la nonna e Lenore che spiega la questione parola/funzione del romanzo. Cito:
[La bisnonna] prese una scopa e si mise a scopare furiosamente il pavimento, e poi mi chiese quale fosse secondo me la parte più fondamentale della scopa, la più cruciale, se il manico o la chioma. Il manico o la chioma. E io non sapevo cosa rispondere, e lei si mise a scopare ancor più violentemente, e io cominciai a innervosirmi, e finalmente dissi che secondo me era la chioma, perché senza manico si può scopare lo stesso, basta tenere in mano l’affare con la chioma, mentre scopare solo col manico è impossibile, e a quel punto lei mi agguantò e mi scaraventò giù dalla sedia e mi gridò qualcosa cosa tipo: «Già, perché a te la scopa serve per scopare, no? Ecco a cosa ti serve la scopa, eh?» e roba del genere. E gridò che se invece la scopa ci serviva per spaccare una finestra allora la parte fondamentale era chiaramente il manico, e passò a dimostrarlo spaccando la finestra della cucina, cosa che fece accorrere i domestici, terrorizzati; ma che se appunto la scopa ci serviva per scopare, tipo per esempio i vetri rotti della finestra, e dai che scopava, allora l’essenza della cosa era la chioma.
Capito? La scopa del sistema.
Ovviamente ‘sta povera Lenore cresce terrorizzata e affascinata dalle delle parole, e per questo viene spesso presa per pazza:
– Tu vai pazza per le parole, vero? – Guardò Lenore. – Vero che vai pazza per le parole? – Cioè? Che significa? – Significa che mi dai l’idea di una che va pazza per le parole. O forse pensi che siano loro a essere pazze. – In che senso? – Nel senso che le prendi terribilmente sul serio, – disse. – Tipo come se fossero un bisturi, o una motosega che rischia di tagliarti con la stessa facilità con cui taglia gli alberi.
Eppure Lenore non può fare a meno di chiedersi cosa definisca autenticamente la sua vita, quale parola riesca a raccontarla davvero – e quindi a farla esistere.
Non ho la più pallida idea di cosa pensasse Cosmo quando ha scritto Wittgenstein. Ma non venitemi a dire che è un caso che la canzone si concluda così:
siamo soltanto il sogno di una divinità,
siamo tutti già morti ed ecco che…
Non ci sono parole.
Potrei andare avanti fino a domani a fare illazioni sulla Cosmologia dei romanzi ma tanto…
sono tutte cazzate.
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[…] Eu, ma da uno che fino a ieri faceva parlare gli alberi, non ce lo aspettavamo comunque un romanzo […]