Un chupito di COP21 “Hollande, fa caldo!”
Per capire quale diavoleria si nasconde dietro tre lettere e un numero dispari vediamo di fare un passo indietro, così un po’ di fretta, ché l’evento tanto atteso comincia già lunedì e il tempo, specie quando si parla di clima, stringe! In volata e per inciso, vale comunque la pena di ricordare che l’obiettivo principale delle negoziazioni di Parigi sarà quello di accordare 195 paesi a limitare l’aumento delle temperature a un massimo di 2° di qui al 2100: proprio una cosina che con le finte mani di Muciaccia ad Art Attack si risolveva in cinque tubi di colla vinilica.
Rivelata la mission, proseguiamo a svelare gli arcani acronimi tanto cari ai Francesi. COP21 sta per “Conference of the Parties” e, dalla prima riunione in quel di Berlino nel ’95, siamo ormai giunti al ventunesimo appuntamento. Fate due calcoli ed ecco capito che questa faccenda riunisce rappresentanti da tutto il mondo con frequenza annuale. Allora perché tanta attenzione su quest’ultima edizione?
In realtà la conferenza di settimana prossima è cruciale perché é lì che si tirano le fila di differenti processi che volgono al termine e necessitano una svolta/rinascita. In primis, la fine del protocollo di Kyoto, che oltre ad aver ispirato Caparezza ha permesso di definire una sorta di piano giuridico climatico a livello internazionale, che oggi necessita di essere archiviato a favore di un nuovo regime, che entrerà in vigore nel 2020.
In secundis siamo alla fine degli OMD, francesismo per Obiettivi del Millennio per lo Sviluppo. Questi ultimi erano stati elaborati nel 2000 specificatamente per i paesi più poveri, ma dal Summit di Rio si è capito e deciso che sarebbe ancora meglio se tutti i paesi avessero dei nuovi obiettivi, stavolta universali. Gli ODD, manco a dirlo! Like OMG! Decine di sigle per dire che a Parigi si vedrà come diversificare gli impegni richiesti di fronte alla diversità strutturale di ciascuno stato: è in questo contesto che si parlerà di lotta contro il cambiamento climatico in termini –si spera!- un po’ più pragmatici.
Terzo macro elemento in un’agenda fittissima, prepararsi alla conferenza Habitat III a Quito, nel 2016. Se, come me, vi siete persi i primi due episodi è che siete ancora giovani. L’agenzia ONU Habitat organizza una conferenza ogni vent’anni, definendo le priorità dello sviluppo urbano a livello mondiale. Una sfida notevole in questi decenni di urbanizzazione senza precedenti, che incidono pesantemente su un mucchio di cose sociali, morali, politiche e, che ve lo dico a fare, perfino sulle emissioni di gas a effetto serra. Ma non se ne parlerà ulteriormente in questa sede, che è meglio che ne discutano degli esperti veri, che lo facciano in maniera scientifica, e che poi ci dicano loro come possiamo dare una mano (ecco, se posso permettermi un appunto, magari ditecelo più e più volte in un linguaggio comprensibile).
A margine della conferenza erano previste –l’imperfetto è d’obbligo in questo mondo ben lontano dalla perfezione –diverse manifestazioni, eventi e attività, ma per ragioni di sicurezza la maggior parte di esse resteranno ritrovi intimi, virtuali o delocalizzati in altre città della Francia e del Mondo. Vi è però un’iniziativa dell’artista Olafur Eliasson (che io a leggerne il nome me lo vedo con le orecchie a punta e i capelli alla Legolas) che si pone come obiettivo quello di sciogliere l’opinione pubblica parigina a partire da domenica. Abituato a riproporre le luci e le forme della Natura nelle sue opere d’arte e affermatosi alla Tate nel 2003 per il suo spettacolare e geniale The Weather Project, per la COP21 Eliasson va oltre l’imitazione della realtà, propinandoci invece la realtà vera e propria. Come rendere il concetto di riscaldamento globale qualcosa di palpabile?
Quasi facilissimo: direttamente dalla Groenlandia portare a Parigi, davanti al Pantheon, 100 tonnellate di ghiaccio, l’equivalente del volume che fonde in un centesimo di secondo sul nostro pianeta. Dodici blocchi saranno disposi in cerchio, così da formare un simbolico quadrante di orologio. The Ice Watch vorrebbe infatti suggerire ai cittadini una maggior consapevolezza della situazione ambientale -ahi noi, d’emergenza pure quella- e invitarli ad agire in prima persona “prima che sia troppo tardi”. Per quanto riguarda la sua opera, se Dicembre non si prende una sbandata per le infradito come ha fatto Novembre, dovrebbero rimanere dei resti di The Ice Watch fino all’11, giorno di chiusura della conferenza. Tutti i pezzi che resisteranno – se ne resteranno- saranno distribuiti a scuole e biblioteche, sperando che le buonanime esperte in geologia si prendano la briga di rivelare come i diversi strati di ghiaccio testimoniano i cambiamenti dell’atmosfera e il sedimentarsi del tempo. Sarà forse quel tempo che ci sfugge e che non si sedimenta il tempo che ci manca per mettere da parte le nostre occupazioni e prenderci cura del nostro pianeta?
Se proprio non lo si vuole fare per i figli e i nipoti, uno sforzo per il Martini on the rocks me lo fate sì?
Elisa Cugnaschi