Tulips | Non regalate fiori a Sylvia Plath

Tulips | Non regalate fiori a Sylvia Plath

Mi sono imbattuta con vivo interesse nell’appendicectomia di Sylvia Plath. Se sei Sylvia Plath anche dal ricovero per una banale asportazione chirurgica dell’appendice vien fuori un capolavoro sicuramente inequiparabile alla modesta casetta costruita per il mio criceto di Roborovsky con decine di bastoncini di ghiacciolo azzurro all’anice consumati voracemente – correva l’anno 1998 – a seguito di un’anedoidectomia. Si sa, una mica si chiama o non si chiama Sylvia Plath così per caso.

1961, Sylvia Plath è ricoverata in una stanza d’ospedale: un po’ si annoia, un po’ gioca con i raggi di luce che riflettono sulle bianchissime pareti – bianche come se fossimo in inverno e avesse appena nevicato – della sua camera d’ospedale, sulle bianchissime lenzuola del suo letto e sulle sue altrettanto bianchissime mani. Riceve una visita e questa visita porta con sé un mazzo di tulipani rossi e da quel momento ciao ciao pace dei sensi. Per Sylvia, che non può fare a meno di cominciare costantemente a guardare ed essere guardata da quell’intruso, invadente ed esuberante mazzo di tulipani rossi che sembra animarsi e respirare ritmicamente attraverso l’involucro di plastica trasparente che lo racchiude – così rossi, vividi, sanguigni, mentre lei è ancora così debole e pallida, in armonia con il bianco spettrale che la circondava ovunque nella stanza d’ospedale prima del loro ingresso – inizia il disagio. Un disagio molto creativo, profondo e col profumo di uno dei poemi più amati e acclamati dalla critica, si intende, stiamo pur sempre parlando di una che si chiama Sylvia Plath.

"Birdman",  Alejandro González Iñárritu, 2014

La bianca sterilità della stanza d’ospedale – e della Plath stessa, in quei giorni di non-esistenza, senza contesto, di rassicurante depersonalizzazione, di assenza dai propri doveri, senza che qualcuno le rivolga alcun tipo di richiesta – e la vitalità di quel mazzo di tulipani rossi: il simbolismo dei colori la riporta in una condizione di piena consapevolezza dei suoi doveri, delle conseguenze di scelte fatte precedentemente e da portare ora a termine.

I tulipani sono una macchia ora pienamente visibile, una ferita ancora fresca, dolorosa, impressa sul corpo di Sylvia, la cui vista costante le impedisce di continuare a sentirsi completamente vuota, anestetizzata, libera.

Nell’incubazione della stanza d’ospedale, Sylvia non deve preoccuparsi del marito, dei figli, del suo essere donna, della sua mente, dell’ingombrante sensazione di essere realmente Sylvia Plath, ma quel mazzo di tulipani non può passare inosservato e riporta in modo lampante colore, rumore, pericolo – la sensazione è che i tulipani le rubino addirittura l’ossigeno – smuovendo la sua condizione momentaneamente confortevole, asettica.

Sylvia fa un bel respiro, prende una decisione e per questa volta rinuncia alle mura bianche, silenziose, libere per seguire il cuore rosso pulsante dei tulipani: nel silenzio della stanza ha sentito che ha lo stesso identico ritmo del suo cuore, forse è pronta per tornare a conviverci.

La salute a lungo termine è probabilmente destinata a rimanere una terra straniera eppure una strada per raggiungerla, da qualche parte, c’è.

*

“Tulips”, Sylvia Plath

The tulips are too excitable, it is winter here.
Look how white everything is, how quiet, how snowed-in.   
I am learning peacefulness, lying by myself quietly
As the light lies on these white walls, this bed, these hands.   
I am nobody; I have nothing to do with explosions.   
I have given my name and my day-clothes up to the nurses   
And my history to the anesthetist and my body to surgeons.
They have propped my head between the pillow and the sheet-cuff   
Like an eye between two white lids that will not shut.
Stupid pupil, it has to take everything in.
The nurses pass and pass, they are no trouble,
They pass the way gulls pass inland in their white caps,
Doing things with their hands, one just the same as another,   
So it is impossible to tell how many there are.
My body is a pebble to them, they tend it as water
Tends to the pebbles it must run over, smoothing them gently.
They bring me numbness in their bright needles, they bring me sleep.   
Now I have lost myself I am sick of baggage——
My patent leather overnight case like a black pillbox,   
My husband and child smiling out of the family photo;   
Their smiles catch onto my skin, little smiling hooks.
I have let things slip, a thirty-year-old cargo boat   
stubbornly hanging on to my name and address.
They have swabbed me clear of my loving associations.   
Scared and bare on the green plastic-pillowed trolley   
I watched my teaset, my bureaus of linen, my books   
Sink out of sight, and the water went over my head.   
I am a nun now, I have never been so pure.
I didn’t want any flowers, I only wanted
To lie with my hands turned up and be utterly empty.
How free it is, you have no idea how free——
The peacefulness is so big it dazes you,
And it asks nothing, a name tag, a few trinkets.
It is what the dead close on, finally; I imagine them   
Shutting their mouths on it, like a Communion tablet.   
The tulips are too red in the first place, they hurt me.
Even through the gift paper I could hear them breathe   
Lightly, through their white swaddlings, like an awful baby.   
Their redness talks to my wound, it corresponds.
They are subtle : they seem to float, though they weigh me down,   
Upsetting me with their sudden tongues and their color,   
A dozen red lead sinkers round my neck.
Nobody watched me before, now I am watched.   
The tulips turn to me, and the window behind me
Where once a day the light slowly widens and slowly thins,   
And I see myself, flat, ridiculous, a cut-paper shadow   
Between the eye of the sun and the eyes of the tulips,   
And I have no face, I have wanted to efface myself.   
The vivid tulips eat my oxygen.
Before they came the air was calm enough,
Coming and going, breath by breath, without any fuss.   
Then the tulips filled it up like a loud noise.
Now the air snags and eddies round them the way a river   
Snags and eddies round a sunken rust-red engine.   
They concentrate my attention, that was happy   
Playing and resting without committing itself.
The walls, also, seem to be warming themselves.
The tulips should be behind bars like dangerous animals;   
They are opening like the mouth of some great African cat,   
And I am aware of my heart: it opens and closes
Its bowl of red blooms out of sheer love of me.
The water I taste is warm and salt, like the sea,
And comes from a country far away as health.
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