Tributo a Katherine Mansfield: La Solitudine, 1910.

Tributo a Katherine Mansfield: La Solitudine, 1910.

Katherine Mansfield, una riproduzione in statua.

Now it is Loneliness who comes at night
Instead of Sleep, to sit beside my bed.
Like a tired child I lie and wait her tread,
I watch her softly blowing out the light.
Motionless sitting, neither left or right
She turns, and weary, weary droops her head.
She, too, is old; she, too, has fought the fight.
So, with the laurel she is garlanded.

Through the sad dark the slowly ebbing tide
Breaks on a barren shore, unsatisfied.
A strange wind flows… than silence. I am fain
To turn to Loneliness, to take her hand,
Cling to her, waiting, till the barren land
Fills with the dreadful monotone of rain
.

*

Solitudine

Ora è la Solitudine, e non il Sonno,
che viene la notte a sedersi vicino al mio letto.
Distesa come una bimba stanca attendo il suo passo,
e la guardo spegnere la luce con un soffio lieve.
Salendo immobile, non si volge né a destra
né a sinistra, ma stanca, stanca abbassa il capo.
Anche lei è vecchia, anche lei ha combattuto tanto
da meritare la corona d’alloro
.

Nella triste oscurità lenta rifluisce la marea
e s’infrange sopra un’arida spiaggia, inappagata.
Soffia un vento insolito: poi il silenzio. Sono pronta
ad incontrare la Solitudine, a prenderle la mano,
ad aggrapparmi a lei, aspettando che la terra riarsa
s’imbeva dell’atroce monotonia della pioggia
.

*

Agli inizi del secolo una giovane neozelandese, Katherine Mansfield, ancora un po’ sperduta in Inghilterra e provvista solo di «quel tragico ottimismo che troppo spesso è l’unica ricchezza della gioventù» cominciò a scrivere storie comuni di donne (e di uomini) comuni – continuando febbrilmente sino alla morte, che l’avrebbe raggiunta, trentaquattrenne, nel 1923.

Tutte le persone che sfiorarono la breve vita di Katherine Mansfield ebbero l’impressione di scorgere una creatura più delicata degli altri esseri umani: una ceramica d’Oriente, che le onde dell’Oceano avevano trascinato sulle rive dei nostri mari. Nel 1922, la pittrice britannica Dorothy Brett affermava: «È così adorabile che non ci possono essere mezze misure. Uno l’ama appassionatamente, perché è impossibile fare altrimenti». Ed il traduttore russo Samuel Kotelianksij: «L’amavo talmente che i suoi scritti erano e rimangono per me una delle manifestazioni meno importanti di lei. È il suo essere, cosa era, l’aroma del suo essere che io amo. Katherine poteva fare cose detestabili, ma il modo con cui le faceva era ammirevole, unico».

In tal senso, la sua vita si colorò, di intensissimi intrecci. Amò il violoncellista Arnold Trowell, la compagna di scuola Ida Baker, una giovane donna maori di nome Maata, poi Garrett Trowell, fratello di Arnold. Portandone in grembo il figlio, sposò George Bowden, tenore lirico, senza consumare mai le nozze. Intraprese un’altra relazione con una donna, Beatrice Hastings. Sposò infine il suo editore, John Middleton Murry, dopo una burrascosa relazione durata sette anni.

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“Nella vita” scrisse nel suo diario, “qualunque cosa venga realmente accettata, subisce poi un mutamento. Così la sofferenza deve diventare Amore. Questo è il mistero. Questo io debbo fare. Io debbo, da un amore esclusivo, salire ad un amore più grande. Io debbo dare a tutta l’umanità ciò che diedi a lui solo”.

Cercava di liberarsi dalla finitezza, inseguendo in tutte le cose l’illimitato. Comprese che l’unico infinito che gli uomini possono conoscere è il dolore: non c’è limite alla sofferenza umana. Il dolore è l’eternità. Katherine Mansfield, tuttavia, trovò nella profondità di sé stessa una calma capacità di accettazione. Accoglieva il dolore, se ne lasciava sommergere e faceva di esso una parte della propria esistenza. Solamente in questo modo, accettandolo pienamente, esso subiva una trasformazione, divenendo amore.

Grande prova di sofferenza per la Mansfield fu la malattia. Come scrisse dalla Svizzera a un giovane amico, «sono tisica. Ma la tisi non mi appartiene. Non è che uno spaventoso cane randagio che, da quattro anni, persiste a seguirmi; così io cerco di farlo perdere tra queste montagne». Visse esiliata nella «terra oscura» della malattia: ne colse tutte le ricchezze; invece di allontanarla dal mondo, la malattia la trasformò in un’autrice più intensa e presente.

Scrisse in questi anni racconti bellissimi, di angosce illuminate da sollievi improvvisi e giornate infinite cariche di magia. Cercò tra la Francia e la Svizzera una cura al suo male, traboccando di vita anche quando il corpo non teneva il passo.

Morì, pressoché sconosciuta, completamente sfiduciata verso il proprio talento, durante un ennesimo tentativo di tenere in piedi la difficile relazione col principale “uomo sbagliato” al quale aveva dedicato la sua vita sentimentale. Quando il marito andò a trovarla all’Istituto dov’era ricoverata, Katherine ebbe un accesso di tosse rientrando nella propria stanza, fuggendo per le scale dopo un litigio. Un fiotto di sangue le uscì dalla bocca e parve soffocarla. In pochi minuti era morta, «con gli occhi spalancati dal terrore», non credendo, sino all’ultimo istante, alla sua umana fragilità di donna.

“This is not a letter but my arms about you for a brief moment” KM

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