Tra la terra e il cielo, New York.
New York la conoscono tutti. Non si sa bene come succeda, ma prima ancora di saper collocare una qualsivoglia città su una cartina, il nome di questa metropoli è già inciso nel nostro immaginario, anzi, già verso i dieci anni proprio vogliamo andarci a New York, almeno una volta nella vita, sai che bella è New York? C’è la Statua della Libertà… e poi Times Square è il centro del mondo!
Io la trovavo magnetica. Non che l’avessi già vista di persona, intendiamoci: mi era solo passata sotto agli occhi svariate volte in film, pubblicità, video musicali o diapositive altrui, ma inspiegabilmente la sentivo anche un po’ mia. Massì New York, dai! Mi pareva davvero di conoscerla coi suoi grattacieli immensi, le vie brulicanti di taxi gialli, le insegne al neon e le strade piene di gente indaffarata e rapidissima, costretta a muoversi sempre e comunque con dozzine di pacchetti e pacchettini.
Fu un pomeriggio prima dell’inizio della scuola che New York mi stupì per la prima volta. Non l’avevo mai vista così (in realtà nessuno l’aveva mai vista così, ma lo capii solo dopo). Nessun luccichio di Times Square, niente musica, niente speciali sull’opera d’arte dell’ultimo artista di turno. Inutile dire che non la riconoscevo, così atrocemente scaraventata in un caos che non era il suo. Perfino attorno a me tutto questo pareva incredibile. Mi spiegarono quello che era successo, ma non ero in grado di coglierne l’entità storica. Capii soltanto che si trattava di una tragedia senza precedenti, che avrebbe avuto ingenti conseguenze. E che a New York ci sarei dovuta andare al più presto.
Mi piace poter osservare questa città da due livelli distinti: il primo posto ad altezza-uomo, lungo gli ampi marciapiedi delle Avenues; il secondo, invece, situato sul tetto di un grattacielo che dia su Manhattan. E’ solo con queste due visuali bene in mente che si può percepire la totalità della Grande Mela.
Dal basso New York è una città in fermento, popolata da una folla poliglotta di individui dai tratti somatici più svariati. Il ritmo dei loro passi pare più veloce del ticchettio di un orologio, ed è con maestria che riescono ad intrufolarsi nella folla e ad uscirne ancora con il loro gran caffè perfettamente intatto. Tutt’attorno è – quasi- come ce lo si immagina: clacson a ripetizione, telefonate, il venditore di caldarroste o di noccioline glassate (le gloriose Nuts for Nuts!), la dance crew che comincia il suo show, il clochard che si sveglia, lo stacchettare impaziente di una donna in carriera, il madonnaro che disegna minuziosamente, gli stranieri affascinati dai negozi monumentali. Vista da terra New York vibra e impregna di frenesia i suoi abitanti, non sembra lasciar loro tregua né spazio, nonostante la sua vastità.
Dall’alto, invece, tutto assume un valore diverso: la giungla di edifici si ridisegna in schemi geometrici a perdita d’occhi, i pochi rumori sono attutiti dal regnante senso di vertigine, gli uomini diventano virgole di un paesaggio che è un romanzo epico postmoderno. Lower Manhattan rivela così la sua natura di penisola, con Battery Park che si getta là dove si incontrano l’Hudson e l’East River. La linea retta dell’orizzonte si disgrega in un tratteggio di grattacieli di altezze diverse, fino a crollare irrimediabilmente in un baratro, reale quanto simbolico: eccolo dunque, Ground Zero.
Sei ettari di vuoto che, all’udito, diventano sei ettari di religioso silenzio. Credo fu proprio in quell’enclave di rigoroso rispetto che New York mi stupì per la seconda volta. Pensare che a qualche centinaio di metri di distanza orde di azionisti si sgolano a Wall Street e stuoli di turisti si mettono in posa davanti al Charging Bull, rende l’atmosfera pacata di questo luogo ancora più sacra. Il Memorial, frutto di una collaborazione tra l’architetto Michael Arad e il paesaggista Peter Walker, è stato inaugurato l’11 settembre 2011. Esso è costituito da un parco con due ampi bacini quadrati e profondi nove metri, posti là dove vi erano le fondamenta delle due Torri Gemelle. Il riferimento agli attentati si concretizza con estro e delicatezza nell’acqua che scorre senza sosta lungo le pareti della fontana, per poi riversarsi al centro delle vasche, in un altro quadrato. Sulla superficie bronzea del parapetto che separa i visitatori dalle cascate sono incisi tutti i nomi delle vittime. Attorno, invece, numerosissimi alberi -un’aggiunta rispetto al progetto iniziale- riempiono tutto lo spazio rimanente, quasi fossero un inno alla vita o uno specchio della reazione degli stessi New Yorkesi agli attacchi. Un ulteriore monumento verrà costruito in memoria degli attentati in questo stesso perimetro, la Freedom Tower, un’imponente torre che raggiungerà i 541 metri (le Twin Towers arrivavano “solo” a 414).
Per ora, tuttavia, l’atmosfera e la percezione del Ground Zero non cambiano se lo si osserva dalla terra o dal cielo, forse una rara eccezione a New York. I suoni sono ovattati, le mascelle serrate, i gesti – talvolta banali, ma mai patetici- sono più lenti, ogni parola sembra avere un peso maggiore. E, inconsciamente, è ancora una volta la vertigine che prende il sopravvento.
Elisa Cugnaschi
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