Tomsk. Memorie da una casa di morti*

Tomsk. Memorie da una casa di morti*

Ogni città brutta è brutta a modo suo, parafrasando Tolstoj: nei quattro mesi in cui ho vissuto e studiato nella cittadina di Tomsk, ho avuto modo di constatarne l’originalità che la rende una città piuttosto piacevole e divertente, nonostante non sia una delle nostre belle ed elettriche città europee (sì, sono un po’ snob).

Nonostante ormai abituata a viaggiare, a conoscere gente, culture e profumi di varie realtà, ritrovarsi scaraventata in Siberia direttamente dal familiare aeroporto di Roma Fiumicino, è stato piuttosto traumatico. Ormai, dopo due mesi abbondanti qui, non ricordo bene cosa mi colpì di più, se il freddo pungente, i metri di neve che ricoprivano ogni forma del terreno, le facce della gente, la loro totale avversità verso la lingua inglese, il cibo..

Tomsk è una città piuttosto brutta nella Siberia centro-meridionale, di mezzo milione di abitanti, situata su una sola riva del fiume Tom’, immenso e maestoso, completamente ghiacciato per più di metà dell’anno. Città universitaria (ha ben nove università!), ha il suo fascino bizzarro in inverno quando un soffice manto compatto di neve copre pietosamente i tristi edifici sovietici, e il fiume di ghiaccio si snoda attraverso di essi. Immagino che più di un centinaio di anni fa doveva essere stata una piccola, graziosa città, con le sue splendide case di legno a uno o due piani, colorate e intagliate da mastri artigiani: ormai queste casette sono oscurate dalle orrende palazzine di era sovietica o (peggio) moderna, che tolgono ad esse luce e dignità. Si salva ancora, per fortuna, qualche via completamente incorniciata da questi piccoli nidi accoglienti; solcate da vecchie ma efficaci linee del tram, dove bande di bambini russi giocano con spade di legno e vecchi palloni, felici e fuori dal nostro mondo moderno, purtroppo non per molto ancora, immagino.

Infatti l’occidente, o la sua copia ancora peggiore dell’originale, ha raggiunto Tomsk, dove i centri commerciali non sono rari, in cui le marche a noi troppo note la fanno da padrone.

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Invece per le strade i cuori nostalgici dei “bei vecchi tempi” si consolano, con i piccoli autobus sgangherati e pittoreschi, simpaticissimi e economici (17 rubli), i chiassosi tram colorati, le minuscole ambulanze, i negozietti di alimentari dalle vetrine coperte di vecchie pubblicità. Camminando per le strade di Tomsk, insomma, non ci si può scordare nemmeno per un attimo, di essere davvero immersi in un altro mondo.

Confesso di non essere mai stata un’amante della lingua russa -sebbene abbia scelto di studiarla- il soggiorno siberiano non mi ha fatto cambiare idea, e decisamente la popolazione russa medio-giovane non mi ha fatto venire voglia di intrattenermi in conversazione con essa: maschi invadenti e appiccicosi, femmine silenziose e timide all’eccesso, o l’estremo opposto.

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Esse fino ai trent’anni sono splendide, algide, longilinee, dopo i trenta c’è una metamorfosi così repentina e sorprendente che anche Dostoevskij, nei Fratelli Karamazov, non aveva potuto evitare di descriverla comicamente. Gli uomini, al contrario, si mantengono bene ma hanno, invariabilmente, la tipica faccia russa un po’ stupida e decisamente non gradevole, quasi sempre abbinata al caratteristico taglio di capelli, purtroppo difficile da apprezzare se non lo si è visto coi propri occhi, con quella frangettina ridicola e spelacchiata.

Invece gli anziani sono cordiali e affettuosi, quasi sempre pronti ad aiutarti, specialmente se si spiccicano due parole di russo; al sentire la loro amata lingua sulla bocca di uno straniero, anche se storpiata e balbettata, immancabilmente si illuminano di piacere e, dopo le domande di rito (Da dove vieni? Ti piace Tomsk? Fa tanto più freddo che a Roma?), sono prodighi di indicazioni e suggerimenti.

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Le usanze e il calore delle tradizioni russe le abbiamo apprezzate almeno durante le feste popolari, come la Malsenitsa, antica festa russa di addio all’inverno -ovviamente qui a Tomsk faceva la bellezza di -20 gradi e il terreno era ricoperto da un metro e più di neve e ghiaccio, ma va bene ugualmente. Festeggiata dai tempi antichi in tutta la Russia, avviene nella settimana prima l’inizio della Quaresima; si mangiano anche più del solito i blinij, l’equivalente russo delle crepes, si canta, si balla e si compiono riti bizzarri. Il nostro gruppone di studenti internazionali, ovviamente scortato da qualche ragazzo russo, si è goduto questa stramba festa popolare dall’inizio alla fine, ballando con ragazze russe in costume tradizionale, bevendo litri di tè bollente per evitare il congelamento e ridendo. Sul piccolo palco allestito per la festa, circondato da decine di chioschi di cibo russo e tè, un paio di uomini -sempre in vestiti richiamanti l’antica Russia contadina- gridavano indicazioni per i giochi tipici, assolutamente esilaranti; uno di essi consiste nello schierarsi, una di fronte all’altra, di due file di soli uomini che, al via, si slanciano contro la persona di fronte e, tenendo i lori vicini sotto braccio, cercare di rompere la linea avversaria. Purtroppo la versione originale, in cui si faceva allegramente a botte, per “lasciare i rancori e l’inattività invernali alla spalle”, non è più in uso!

Ma stupidi giochi e balli a parte, ci sono stati momenti estremamente suggestivi; improvvisamente, un coro di circa sei, sette anziani è salito sul palco e ha iniziato a cantare splendide antiche canzoni della tradizione popolare, senza alcun accompagnamento, a cappella, con le mani nelle tasche.. le voci limpide delle anziane signore si intrecciava con quelle roche e calde degli uomini e sull’intera folla è sceso un silenzio quasi commosso. Forse il mio giudizio è distorto dall’amore per la letteratura e dall’immagine favoleggiata di una Russia antica e pura, ma credo di aver visto con i miei occhi quell’amore per il canto e per la musica del popolo russo, quel senso del ritmo e del ballo che scorre nel loro sangue, raccontato così meravigliosamente da Tolstoj.

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Dopo i primi due mesi e mezzo di freddo terribile senza sosta, con picchi di -30 e nevicate di giorni interi, ho potuto vivere sulla mia pelle il mitico disgelo russo: due settimane di fango. Fango ovunque, in tutte le salse! Camminare è stato un vero incubo, da farmi rimpiangere il ghiaccio che, nonostante ci obbligasse a camminare a passettini traballanti e con gli occhi fissi al suolo, almeno non ci illudeva con una coltre bianca per poi inghiottirci fino al ginocchio nella fanga gelata sottostante. Ah Tomsk mia, quante imprecazioni mi hai strappato, quanti calzini mi hai fradiciato!

Eppure, sopportato questo periodo infame, la primavera siberiana è esplosa. Letteralmente! Da un giorno all’altro metri di neve sparivano, le pozzanghere si asciugavano, gli alberi si coprivano di gemme.. maggio è stato un mese deliziosamente tiepido e piacevole, il cui culmine è stato l’imponente parata del 9 Maggio. Questa data è una delle più importanti per il popolo russo: il giorno della Vittoria. Naturalmente la vittoria sul nazismo, la vittoria della guerra, la vittoria morale sulla vicina Europa sempre tanto invidiata. Ovviamente le parate serie sono a Mosca e Pietroburgo, ma anche Tomsk nel suo piccolo si è difesa bene: soldati, veterani, antiche moto e macchine da guerra, garofani rossi ovunque e bandiere rosse con tanto di falce e martello tappezzavano la città. Le vedove col vestito buono e la foto del marito morto al fronte e i veterani ormai traballanti e coperti di medaglie, con i loro splendidi visi assorti e segnati da un dolore tanto grande, strideva con la chiassosità della festa delle nuove generazioni: bambini vestiti da soldatini, ragazze con cappellini militari.. e chi più ne ha più ne metta. La famosa mancanza di gusto russa, unita alla pomposità nazionalista e militarista che ha sfogo in questa giornata, ne ha fatto uno spettacolo decisamente unico e interessante.

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Tomsk mia cara, mi hai insegnato che se si sa guardare si trova bellezza nei posti più inaspettati: sebbene non credo ti rivedrò mai, resterai per sempre nel mio cuore, multiforme e multicolore, fredda e calda, brutta e bella.

 

 

*titolo del libro autobiografico che Dostoevskij scrisse sul suo soggiorno in una campo di lavoro in Siberia, dove fu deportato in giovinezza come prigioniero politico, dallo zar Nicola I.

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