Todays Festival 2021 | Life is people

Todays Festival 2021 | Life is people

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Todays Festival 2021

Ti conviene
cogliere il tempo che rimane
prima che smetta di bruciare
dentro al tuo cuore
anche il più piccolo ideale
che sta tremando di terrore

Confesso che fino all’ultimo ho temuto che non fosse possibile. Che nemmeno la testardaggine, l’attenzione al dettaglio e la visione con cui Gianluca Gozzi porta avanti i suoi progetti da anni avrebbero avuto la meglio su un contingente che ha impiegato pochissimo per spazzar via un intero settore, quello della musica live, da un Paese. E invece, ancora una volta, ha avuto ragione lui: il Todays Festival 2021 c’è stato davvero, si è svolto senza intoppi e ci ha restituito una dimensione che, per quel che mi riguarda, avevo chiuso a chiave in qualche cassetto al fondo del cuore per non starci a pensar troppo ogni giorno.

Ma queste parole non rendono giustizia a un evento memorabile – il primo in assoluto, dopo tanto tempo – che mai, nemmeno per un istante, è parso una versione in scala ridotta del prima. Quattro giorni di concerti nello spazio del Parco Sempione di Torino e una line-up di valore internazionale, coraggiosa nel mettere insieme istanze soniche perfino drastiche e lasciando indietro in parte la cifra indie per cui il Todays da sempre si era caratterizzato. E questo nonostante le limitazioni del presente – giusti controlli all’ingresso, posti a sedere numerati – e le defezioni dell’ultimo minuto che, per quanto significative, non hanno potuto azzoppare un’idea troppo forte per smettere semplicemente di esistere.

Non so se questo Todays abbia indicato una strada per un futuro che si spera più semplice. Di certo, nella vita bisogna fare col materiale a disposizione: grazie a questo festival, ora sappiamo che quel che c’è intorno è sufficiente a creare di nuovo gioia, sorpresa, unità.

Todays Festival 2021. Life is people

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26 AGOSTO | IL MONDO È UN TIPO IRRAZIONALE

Accedere a un’area concerti a quasi due anni di distanza dall’ultima volta è una processione fluida, ordinata, ben regolamentata; avvicinarsi al palco con molto anticipo rispetto all’orario d’inizio, quando ancora tutte le sedie predisposte per il pubblico pagante – una quarantina di file – sono vuote, è invece un’esperienza straniante, da approcciare con la cautela di chi, immergendosi in acqua, voglia prima saggiarne la temperatura.
Ma già al principio del set di Asgeir – sostituto d’emergenza dei ben più interessanti Working Men’s Club – l’atmosfera inizia a saturarsi di chiacchiere, sguardi e nuove conoscenze, e la distanza fra questa versione del Todays e il boutique festival pre-COVID che avevamo imparato ad amare si è già annullata. Del resto, è questo il momento migliore per prendere confidenza con il luogo, dato che la musica che si ascolta mi risulta ancora prescindibile – un Bon Iver senza vocoder, una selezione di luoghi comuni eighties. Non sarà più così di lì a poco.

Faccio davvero fatica, oggi, a farmi andare giù delle riproposizioni di stilemi post-punk – banalmente: ne ho ascoltato troppo, perfino più dello shoegaze – ma è complicato non farsi coinvolgere dalla presenza scenica dei Dry Cleaning, classico quartetto voce-chitarra-basso-batteria in cui però la vocalist Florence Shaw, una specie di apparizione, non canta né recita ma parla le proprie liriche con distacco spettrale.
Non mi aveva entusiasmato, New Long Leg, e invece dal vivo i pezzi brillano come non mi sarei aspettato, un bel cortocircuito fra le basi strumentali – menzione d’onore per la Gibson SG di Tom Dowse, che a volte s’infila pure in vicoli hard-rock – e un parlato dal timbro pieno e rotondo, che mostra come il non-canto sia una scelta e non un vincolo tecnico. Una bella band, da rivedere nella speranza che da qui sappia ancora evolvere.

Todays Festival 2021 > Dry Cleaning

Ma l’Assoluto, questa sera, sta altrove, e ha l’aspetto di un’orchestra di dodici elementi elegantemente nerovestiti che si raccoglie attorno al bianco di Andrea Laszlo De Simone; archi, fiati, tamburi, bassi, chitarre e cori che volteggiano sulla classica del cantautore torinese e la sua voce passata attraverso una radio a valvole.
Un’ora di meraviglia che è pure un commiato, seppur temporaneo: qualche giorno prima, De Simone ha annunciato di volersi prendere una pausa a tempo indeterminato, spiazzando un po’ tutti visto il successo costruito anche all’estero negli anni successivi all’uscita di Uomo/Donna. Tornerà, dice, e non stento a credergli, vista l’intensità palpabile delle esecuzioni che le fa sembrare una necessità anche per chi sta sul palco, oltre che per chi guarda a bocca aperta uno spettacolo che non potrà dimenticare.

Apre con la suite Immensità, De Simone: i fiati, possenti, l’annunciano come araldi di un Avvento dalla consistenza di un sogno che sa riportare in vita il mondo in bianco-e-nero delle grandi ballad italiane degli anni Sessanta, di Lucio Battisti e del progressive pop di casa nostra, ridipinto però in maniera del tutto contemporanea e con non un grammo più dello sfarzo necessario – Ennio Morricone che musica Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space.
E il riferimento a Jason Pierce non è casuale: qui, sullo stesso stage, due anni fa mi era capitato di assistere a un altro incantesimo orchestrale, quello gospel/soul/pop degli Spiritualized; lo stupore diffuso che si coglie stando in platea, oggi, è lo stesso, con il pubblico che quasi non respira nel timore di interrompere, disturbare, distogliere i vicini dall’unica cosa che conti: la verità di un’emozione.

Lei ha una camicia azzurra che le arriva quasi fino al ginocchio, lui una di un giallo quieto; ballano stretti, puntano l’indice al cielo, cantano all’unisono: li direi innamorati, questi due corpi belli e giovani che ondeggiano qualche metro avanti a me in sintonia con le magnifiche canzoni della seconda parte del live – il coretto da gommadamasticare La Guerra dei Baci, l’invocazione infinita/sfinita Vieni a Salvarmi, il groppo in gola da titoli di coda Vivo. Non riesco a smettere di guardarli con un sorriso beato, mentre pian piano le loro figure svaniscono nel suono, una cosa sola con l’immaginario evocato da De Simone. E così quando finisce il concerto me ne vado camminando senza attriti, innamorato pure io.

Todays Festival 2021 > Andrea Laszlo De Simone

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27 AGOSTO | 21ST CENTURY SCHIZOID MEN

Sempre godibile, il live di un supergruppo come gli I Hate My Village – Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) e Alberto Ferrari (Verdena) alle chitarre, Fabio Rondanini (Calibro 35) alla batteria, Marco Fasolo (Jennifer Gentle) al basso. Il titolo dell’ultimo EP Gibbone viene trasformato in tormentone dopato e strascicato – “Gibbone per tutti!” – da un Ferrari decisamente su di giri, lungo tutto un set che comprende la quasi totalità del repertorio del quartetto.
Facilmente circoscrivibile a livello stilistico – ritmiche afrobeat, circolarità psych, chitarre affilate, vocalità nebulosa – la proposta della band è di sicuro impatto, portata su un palco; non si vede però ancora all’orizzonte qualcosa in grado di sparigliare le carte del canovaccio: ascoltato un groove li hai ascoltati tutti, e forse da musicisti di questo livello si vorrebbe più di un pur gustoso divertissement.

“Godibile”, invece, non è certo la parola giusta per descrivere l’uragano impro che si abbatte sullo Spazio 211 intorno alle 21:30 con l’arrivo dei black midi. I sessanta minuti che seguono sono quanto di più radicale, imprendibile e – vivaddio! – rumoroso si possa immaginare da una band di venti-e-qualcosa che, pur ridotta a trio, revolvera i King Crimson wave con proiettili Double Nickels On The Dime e una tecnica stellare, paragonabile solo all’indifferenza con cui Geordie Grepp (chitarra, mal di gola, giacca e cravatta sotto la tuta dell’Adidas), Cameron Picton (basso, acustica maltrattata, maglietta di Elton John) e Morgan Simpson (treccine nascoste da un copricapo da batterista fusion anni Settanta) saltano da un genere all’altro – a titolo puramente indicativo e non esaustivo: funk, prog, jazz, noise, hardcore, post-rock, folk, blues – nel giro di pochi secondi, e con consapevolezza millimetrica.

Di una musica incredibile, dove tutto pare possibile in favolosa scioltezza e sempre in evoluzione – solo metà della setlist offre brani effettivamente pubblicati su album -, si può dire poco di più: il riferimento preciso per descriverla sta forse nella copertina dell’ultimo Cavalcade, guazzabuglio di cose accartocciate, dimenticate, spezzate e accumulate che somiglia allo span di attenzione di un adolescente nerd nella società dei meme.
Per qualcuno – probabilmente dimentico di quanto l’attitudine da scontro frontale sia necessaria per produrre arte interessante – i black midi sono una provocazione iper-tecnica e autocelebrativa; per me, invece, valgono ancora le parole di Neil Norman di NME, che citavo su Ondarock due anni fa raccontando di una loro altrettanto formidabile performance al Club To Club: “diversamente dai Fall, che mi fanno venir voglia di uscire in strada a prendere a calci i gatti, i Joy Division mi convincono che potrei sputare in faccia a Dio”.

Todays Festival 2021 > Black Midi

Alla fine, un altro highlight, e, tra tutti, quello che attendevo con maggiori interesse e curiosità. Perché Teho Teardo – nelle sue divagazioni post-autoriali con Blixa Bargeld come nelle numerose colonne sonore scritte nel corso degli anni – si è ormai affermato come compositore di soundscape di gran qualità e sempre emozionali; e perché La Jeteé di Chris Marker – cortometraggio sci-fi del 1962 che oggi, per il punto cui siamo arrivati, suona come un sinistro monito – è uno dei miei massimi feticci cinematografici: la somma delle due cose non poteva che costituire una straordinaria attrattiva, confermata dal risultato finale.
Per un evento cui, son sicuro, in un anno normale avremmo assistito nello spazio dell’ex fabbrica INCET, Teardo si è preso cura di chitarra baritona, elettronica e campane; ad affiancarlo, Laura Bisceglia al violoncello e Ambra Chiara Michelangeli alla viola.

Il musicista pordenonese si è avvicinato con rispetto a quel testo sacro, facendolo precedere dalla proiezione sonorizzata di A Man Falling, film breve firmato con Orazio Guarino che anticipa le tematiche del capolavoro di Marker, tempo e memoria. Un’introduzione che ho trovato sentita ma forse un poco didascalica – vedere La Jeteé per la prima volta, senza saperne nulla, è un’esperienza trasformativa – e che però si è configurata come utile proemio a quel mondo post-apocalittico così terribilmente vivido: la superficie terrestre resa inabitabile da un conflitto, il viaggio nel tempo alla ricerca di una speranza, la memoria e l’amore come motori dell’umano agire (fidatevi: non è Interstellar).
Per l’occasione, Teardo crea un denso tappeto di sonorità al crocicchio tra minimalismo, ripetitività e crescendo post-rock e musica d’ambiente, cogliendo con bella precisione il sentimento di ineluttabile, tragica malinconia del film.

Todays Festival 2021 > Teho Teardo

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28 AGOSTO | NOUS ALL EL SAME MON NAME

Che io ritenga IRA il lavoro più importante di quest’anno – e forse migliore anche di qualunque cosa ascoltata nel decennio scorso, ma questo lo dirà il tempo – è fuori discussione: qui su SALT ne abbiamo parlato già ampiamente al momento dell’uscita. Certo che il live in trio che Jacopo Incani ha imbastito nell’attesa di poter riproporre integralmente l’album a teatro con un ensemble di sette elementi non aveva trovato modo di brillare adeguatamente nella cornice del Ferrara Sotto Le Stelle. La grandezza delle composizioni era lì da vedere, ma, complici un impianto e dei volumi non del tutto consoni e probabilmente anche la mia posizione defilata, l’impatto di quella travolgente glossolalia mi era arrivato un poco depotenziato. Un peccato mortale per un’avanguardia tanto comunicativa, che fortunatamente non si è ripetuto a Torino.

Accompagnato dai campionatori e dai synth di Bruno Germano e Amedeo Perri, IOSONOUNCANE ha offerto una versione condensata della setlist già ascoltata nel corso del tour estivo.
Alcuni dei brani più estesi di IRA, un paio di estratti dall’ormai classico DIE, e l’ora prevista – del tutto priva di pause e di attese d’applausi – è già trascorsa: lo scoppio di violenza improvvisa di Prison, obnubilante quanto certi deliri Michael Gira o l’abbaiare di Charles Hayward in Makeshift Swahili (dal secondo album dei This Heat, Deceit, per chi volesse); il miraggio vagabondo di Ojos, efficace nonostante l’assenza del notevole assolo di chitarra che ne impreziosiva la versione in studio; il senso di fuga e fiato corto di Jabal, l’orrore di un oppressore sempre alle calcagna mimato dall’incalzare sincrono di beat e sillabe. Solo le corde marce d’acqua e di sale di Tanca e Buio sopravvivono dal passato recente, le uniche tracce vecchie a potersi amalgamare alle nuove. Chiude poi Hajar, lasciandoci ammutoliti.

Todays Festival 2021 > IOSONOUNCANE

In un panel pomeridiano entry-level dedicato al post-punk, Maurizio Blatto – storica firma di Rumore, e passate a trovarlo al suo Backdoor, se capitate a Torino: io mi son portato a casa Julee Cruise e Neneh Cherry, a questo giro – raccontava le origini della musica dei Joy Division: una musica figlia della desolazione del mondo fuori, e di cui quel nero, quella noia, quell’odio erano una conseguenza.
Travolto dalla poderosa massa sonica scaraventata su di me – occhi sbarrati, dita nervose a tormentare le gambe, seconda fila – dagli amplificatori, mi sono trovato a notare l’impressionante capacità di Incani di tradurre in arte il presente che lo circonda: ascoltarla, ascoltarne l’intreccio di linguaggi privi di denominatore comune, significa addentrarsi nell’urlo mostruoso che si leva dalle masse di ogni angolo della terra, quali che ne siano le cause. Ciò che il mercato ha cercato di negare atomizzandolo – in due parole: l’essere umano come parte di una collettività, la sua sofferenza – Incani lo rimette insieme in un suono che fa tremare le vene e i polsi, e proprio per questo necessario.

Prima e dopo di lui, non me ne vogliate, tutto sembra superfluo, dall’innocuo indie-pop dei veterani Shout Out Louds fino all’hard-funk spaziale dei grandi The Comet Is Coming di Shabaka Hutchings: live band memorabile, che regala una performance d’impetuosa fisicità che non s’arresta nemmeno quando tutto l’impianto salta per qualche minuto e a noi arrivano solo i suoni della batteria e delle spie. Ma non tutto è un’epifania, contrariamente a quel che la mia generazione ama pensare: io, la mia, per stasera l’ho avuta.

Todays Festival 2021 > Shabaka Hutchings, The Comet Is Coming

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29 AGOSTO | YOUNG, LOUD AND SNOTTY

Quando sul palco sale Erlend Øye, a vederlo – occhiali, ukulele, colori pastello – non diresti mai che per il tempo a seguire ti riuscirà a stento di togliergli gli occhi di dosso. Chiamata a sostituire Arlo Parks a sole due settimane dall’inizio del festival e accompagnata dal trio siracusano La Comitiva – Marco Castello, Stefano Ortisi e Luigi Orofino -, la metà bionda dei Kings Of Convenience ha regalato uno spettacolo lieve come una brezza alla fine dell’estate, tra indie-pop, bossanova e un’insospettabile vena cabarettistica che ha catturato un pubblico spesso giovanissimo ed evidentemente lì per altre ragioni.
Ma alla voce gentile di quella figura stralunata, capace di portare in scena un mondo quirky scritto e diretto da un Wes Anderson in infradito, risulta davvero impossibile resistere: la sua felicità non pare mai posticcia, ed è un attimo trovarsi a cantare “I’m gonna turn your life upside down” o, invitati al “matrimonio di Ruggero”, imitarne il goffo, tenerissimo italiano.

Di tutt’altro tono lo show di Motta, che quest’anno porta a spasso il nuovo corso di Semplice: un album che lo ha confermato songwriter di vaglia e dalle potenzialità mainstream, con qualche rimpianto per quel che dall’esordio in proprio di cinque anni fa è andato perduto. Non mancano certo energia e trasporto, alle nuove canzoni – menzione particolare, dopo questo live, meritano almeno la pianistica Via Della Luce, l’insistita L’Estate d’Autunno, la sparata à-la Cure Quello Che Non So Di Te.
Quello di cui io, per me, sento un po’ la mancanza, è però lo stridere di una voce che si macera nel dubbio: si cresce e si matura, si sta meglio ed è un bene; ma forse certe intuizioni scure il tempo se le porta via, e infatti di rauche folgorazioni come “mi suonano alla porta, non trovo la mia faccia” non se ne sono più sentite, da queste parti. Le hanno sostituite un gran tiro alt-rock nineties – l’elettrica va spesso a fuoco, e la batteria è quella di Cesare Petulicchio dei Bud Spencer Blues Explosion – e una corporeità nervosa e coinvolgente. Ancora inquieta, non più inquietante.

Todays Festival 2021 > Erlend Oye

Alla fine, per ultimi, arrivano gli Shame e la scossa è quella attesa, sperata. Non fosse per le circostanze castranti in cui ci troviamo, il loro concerto sarebbe uno scontrarsi di corpi senza soluzione di continuità: pochi brani e già il frontman Charlie Steencocky come il giovane Liam Gallagher – arringa la folla a torso nudo, mentre il bassista Josh Finerty rimbalza come in un flipper da una parte all’altra del palco, tra corse, capriole e dolorosissimi atterraggi di schiena. Il resto della band tiene la barra dritta nel mezzo di un rigenerante tornado post-punk: rispetto al bellissimo Songs Of Praise, i pezzi del sophomore Drunk Pink Tank sono una macchina infernale di riff angolari, cambi di tempo e sproloqui invasati che dal vivo convogliano un’energia insabbiata per due anni come un ordigno inesploso.

Di tutta la nuova scena post-punk britannica – o almeno: di quella che non si butta a capofitto in divagazioni artsy (penso agli ottimi Squid) – gli Shame, cent’anni in cinque, sono senz’altro i più slogati, imprevedibili e incendiari: i loro mezzi sembrano decisamente superiori a quelli dei coetanei Fontaines D.C. – noia senza fotta – o dei ben più anziani IDLES – fotta senza sottigliezze. Godersi quelle convulsioni, quei nervi a fior di pelle e pure certi rallentamenti (Snow Day, Station Wagon) e rilasci in planata (Angie, suonata come bis e forse la mia favorita) mi ha ricordato quanto e perché avessi nostalgia della botta di elettricità non mediata che arriva da un palco rock quando chi lo calca ha il talento necessario a generare marosi. E chi non ce l’ha, non se lo può dare.

Todays Festival 2021 > Shame

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SAY HELLO WAVE GOODBYE

Già mentre mi alzo per lasciare il mio posto – sfilandomi gli occhiali da sole con cui ho assistito all’ultimo concerto fingendo di avere ancora l’età per farlo – sento di avere avuto un privilegio. Mi guardo intorno e vedo volti amici dipinti degli stessi toni dell’incredulità e della gratitudine; perfino negli sconosciuti avverto vicinanza, e finisco per abbracciare una ragazza che per qualche ragione è spesso finita in un posto a fianco del mio durante queste giornate – a lei, a tutti, avrei voglia di dire “è bello vederti, sono felice che tu stia bene”.

Due sere prima, prima di un bis, Teho Teardo aveva ringraziato pubblico e organizzatori citando un disco di Bill Fay. Life Is People, si chiamava: la vita sono le persone, e ognuno non sta aspettando altro che ritrovarle come e appena può. Non avrei potuto chiedere un’occasione migliore di questo Todays per ricominciare a farlo.

Fotografie di Federico Cardamone.
Un ringraziamento a Giorgia Tomatis, per la gentilezza.

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