To make a prairie | Emily Dickinson
Baglioni non ha mai scritto una canzone sulla sua adolescenza ma se riunissimo in una stanza tutti coloro per i quali Emily Dickinson è l’indiscussa Scene Queen planetaria della Poesia allora direi che lasciamo stare la stanza e occupiamo direttamente tre quarti delle terre emerse finora esplorate e sistematicamente prosciugate dall’umanità di tutte le loro gloriose ed esauribili materie prime. Il sovraffollamento tendenzialmente non mi scoraggia. Tendenzialmente.
La prima cosa che Emily Dickinson ha scritto sono due valentini, composizioni alla fragranza di Biancospino all’apparenza frivole e dalla grafia tondeggiante purtroppo note a chi ha subito Emma della Austen come dolorosissima ed efficace cura Ludovico preadolescenziale (o anche a chi ha un fetish per i Period Drama girati in autunno in Cornovaglia). Uno in prosa, uno in versi.
I due fortunati ai quali questi due graziosi componimenti (ancora parecchio lontani dall’intensità di cui la Dickinson era capace, ma siamo solo all’inizio) erano dedicati – due assistenti dell’Amherst College che usavano frequentare l’autorevole casa Dickinson – li trovarono talmente riusciti da ottenere la loro pubblicazione su una rivista studentesca e sullo Springfield Daily Republican. Il talento si vede nelle piccole cose, quelle cose che quando gli altri le fanno non succede assolutamente niente o al massimo ricevono in cambio imbarazzanti inviti a balli Regency in sale sempre troppo strette per lo sproporzionato ammontare di invitati.
To make a prairie arriva qualche tempo dopo, è il componimento numero 1755 degli oltre 3500 scritti nella sua stanzetta ad Amherst strabordante di migliaia di fogli tenuti romanticamente insieme dallo spago, ed è un inno minimale all’inflazionato ma sempre validissimo e soddisfacente (per i poeti, ma non solo) motto: “basta il pensiero”. Nella sua connotazione più nobile, aulica e mentalmente impegnata, si intende.
Un esercizio di sottrazione dove l’astratto si sostituisce velocemente al materiale, annientandolo, rendendolo superfluo, d’intralcio. L’immaginazione è infatti un cerchio uroborico che, in condizione di costrizione (inflitta, volontaria, patogena) deve bastare a se stesso. Un serpente che si morde la coda, senza inizio, senza fine, senza possibilità di arresto.
Un componimento poetico breve dell’artista più ascetica del diciannovesimo secolo, – in contrasto al suo contemporaneo bucolico e vagabondo, Walt Whitman – la poetessa postuma del New England non curante delle questioni teoriche e che dice più o meno questo: “I panorami negati portano all’invenzione”.
To make a prairie
To make a prairie it takes a clover and one bee,
One clover, and a bee.
And revery.
The revery alone will do,
If bees are few.