Brazil, Terry Gilliam

Brazil, Terry Gilliam

In un mondo reso grigio dalla burocrazia, solo i sogni possono salvarci?

La fantasia fatica, spesso, a staccarsi definitivamente dalla realtà; per questo la maggior parte delle grandi opere distopiche del ‘900 prende avvio dall’esasperazione profetica di alcune caratteristiche negative della nostra società, con la volontà di esprimere un monito alla società stessa. Forse anche perché le opere distopiche, citiamo il 1984 di Orwell ma anche Brave New World di Huxley, vogliono essere d’insegnamento e guida, ancor prima che di intrattenimento, vogliono dunque essere l’ammonimento ad una promessa, con riferimento a come potrebbe essere il mondo.

I tentativi di trasferire il materiale e ancor prima l’atmosfera distopica al cinema, non si contano: basti pensare che il primo film catalogato come “fantascienza” (l’arcinoto Metropolis di Lang), altro non è che una visione distopica di un mondo ipertecnologico e classista, esattamente come prometteva di diventare il mondo nei primi anni del novecento. Ugualmente molteplici sono stati i tentativi di trasferire su pellicola l’opera di Orwell, dal fedele e discreto Orwell 1984, fino all’aberrante e pseudo-psicanalitico Equilibrium (dove si cerca di fare anche un accenno alla droga usata in Brave New World, con risultati non brillanti). Esiste, però, un film che più degli altri si distingue per libertà inventiva ed è Brazil di Terry Gilliam.

Il regista (uno dei 6 dissacranti Monty Python) parte dal materiale fornito da Orwell per creare un’opera ibrida e personalissima, straripante di inventiva. Il mondo è nelle mani della dittatura della Burocrazia, per tutto serve un modulo ed una firma (da recuperare in un altro ufficio ad un altro piano). Braccio armato di questa burocrazia è il Reparto Recupero Informazioni, che può conoscere tutto di tutti e alterare questa conoscenza; che emana mandati di cattura e interroga, torturandoli a morte, i prigionieri. Dimenticato nell’archivio, vive e lavora Sam Lowry, un uomo modesto e, a detta sua, senza ambizioni, così in contrasto rispetto ad un mondo di arrivismo bieco e apparenza. Come se la prima ribellione fosse la normalità. Non interessato al guadagno, né alla bella vita, tanto da rinunciare alle promozioni procurategli dalla ricca madre, che passa il suo tempo fra interventi di chirurgia plastica (che letteralmente “tirano” la sua faccia) e feste borghesi.

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Non è tutto: Sam ha un sogno ricorrente, dove lui è una specie di angelo/cavaliere meccanico che vola per incontrare la sua bionda principessa. Sarà proprio l’inseguimento spasmodico dell’immagine del suo sogno, ritrovata in una ragazza incontrata per caso, a portare Sam in una spirale di guai più grande di lui. Ecco dunque la seconda ribellione, molto più visibile e sonora della prima: la capacità di sognare e inseguire i propri sogni, anche quando sembra folle. Proprio nel mondo onirico otteniamo una chiara lettura della vicenda del protagonista: sono enormi cilindri di cemento grigio, simili a grattacieli o monolitiche bare berlinesi, che impediscono il volo all’angelo Sam, come a dire che è l’urbanizzazione (intesa come fenomeno sociale, oltre che edilizio), l’assuefazione ad un modello di vita industriale, che tarpa le ali all’uomo. Ugualmente, il suo lavoro si concretizza in un gigante di pietra che lo trattiene per un piede impedendogli di volare, e la società repressiva diventa un samurai senza volto, ignoto e oscuro per fattezze e provenienza geografica. Solo l’amore permette a Sam di volare, nei suoi sogni.

La terza ribellione, a cui il protagonista aderisce, più o meno consapevolmente, è quella portata avanti da HarryTuttle (un sornione Robert De Niro), tecnico dell’aria condizionata abusivo, terrorista, che si oppone ai burocrati per una sua naturale avversione per i moduli e i fogli di carta (che avranno un ruolo particolare nella fine per contrappasso di questo personaggio farsesco). Sarà lui, volando fra i palazzi con una carrucola, ad aiutare più volte lo spaesato Sam. Il viso assolutamente inadatto e non bello, non particolare, di Jonathan Pryce, rendono perfetto il senso di alienazione del personaggio.

Il mondo descritto dal regista è moderno ed antico allo stesso tempo. È dominato da dalle onnipresenti televisioni, visibili in tutte le stanza, anche in bagno, ma queste trasmettono solo vecchi film in bianco e nero (fra cui una citazione dei Fratelli Marx, a cui i Monty Python devono molto). I computer sono schermi innestati su tastiere di macchina da scrivere e il protagonista veste come i personaggi di Casablanca. Il mondo distopico deriva direttamente dal nostro, tutti possono ritrovare dei particolari del mondo reale in questa visione cupa e grigia del mondo dominato dalla burocrazia. Eppure ci sembra che questa “malattia” derivi da lontano, che i suoi semi e le prime avvisaglie fossero ben presenti già nel passato.

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GIlliam riesce a fare del sincretismo una filosofia, e del grottesco un’arte, mettendo insieme molteplici e infiniti spunti, ma ricavando da questa miscellanea un prodotto che è assolutamente originale e personale. Abbiamo citazioni dall’immaginario di Kafka, che viene ricordato nella maniera assurda con la quale i sospettati vengono “prelevati” dalla polizia, ma forse ancora di più nel primum movens dell’intera serie di sfortunati eventi: uno scarafaggio che, ucciso, cade in una macchina da scrivere e altera una lettera del nome di Tuttle. Ugualmente, saltano agli occhi le sequenze di sparatoria, che riprendono La corazzata Potëmkin di Ėjzenštejn, ma la famosa carrozzina è sostituita da una quasi ridicola lucidatrice.

L’idea in assoluto più felice e vincente è quella del titolo: esso infatti deriva da una canzone (Aquarela do Brasil), che viene usata per tutto il film come unica colonna sonora. Il tema, infatti, viene preso e modellato sulle situazioni, con mille variazioni, fino a farlo diventare addirittura una sincopata musica d’inseguimento. Creare un film grottesco, finanche buffo, per portare allo spettatore un’alienazione completa, che esploderà nel brutale finale, è l’obiettivo del regista: e cosa c’è di più alienante di un motivetto sudamericano ossessivamente ripetuto (e canticchiato sul finale dal protagonista) in mezzo ad una città di grigio cemento?

Alessandro Pigoni

 

Fotografia di Matteo Romellini
Titolo| Brazil
Anno| 1985
Durata| 132 min
Genere| fantascienza, grottesco, commedia nera, drammatico
Regia| Terry Gilliam
Cast| Jonathan Pryce, Robert DeNiro, Bob Hoskins

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4 COMMENTS

  1. […] Terry Gilliam, si sa, qualunque cosa tocchi la trasforma a sua immagine e somiglianza. Ne è ulteriore riprova l’esilarante cortometraggio natalizio The Christmas Card, realizzato nel lontano 1968 (cioè circa un anno prima che nascesse il Monty Python’s Flying Circus). L’humor dissacrante (e molto inglese) del regista si ritrova in queste cartoline natalizie animate. Dietro la parvenza di Gioia al Mondo intero, si nascondo stelle comete fuggitive, cacciatori alla ricerca della mamma di Bambi, Babbi Natali diversamente buoni, che tolgono i regali ai bambini e rapiscono i bambini stessi (ma solo se cantano le carole natalizie). […]

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