The Vast of Night, l’esordio clamoroso di Andrew Patterson
Amazon Prime ha una scelta di film molto superiore al suo primo concorrente Netflix, diciamocelo. Mentre Netflix guida in termini di serie tv, che non solo acquista (quella ciofecona invereconda de La Casa de Papel), ma anche produce (col meccanismo nostalgia, tanti sentimenti e poca fantasia), Amazon Prime ha il primato fra i servizi di streaming “mainstream” (ok, non sto parlando di MUBI o di Criterion) per quanto riguarda i lungometraggi, con contenuti che spaziano da Pasolini e Antonioni, fino a Tati e Carax (oltre a Gareth Evans, sempre in gloria). Non è per caso, dunque, che mi sono imbattuto in The Vast of Night.
Titolo uscito da poco, dello scorso anno, ha girato fra i festival (ottenendo ottimi risultati) per poi venire acquistato da Prime che lo ha distribuito, non solo in streaming ma anche nei Drive-in americani (come giusto che sia vista ambientazione e toni del film). Titolo “piccolo”, per produzione e budget, ed esordio alla regia di Andrew Patterson. Il soggetto è semplice, ma efficace nel suo gusto retrò: in una cittadina americana degli anni Cinquanta, una giovane centralinista (Sierra McCormick) ed un disc jockey della radio locale (Jake Horowitz) intercettano per caso un segnale audio, una sorta di disturbo nelle frequenze radio, che li porta ad indagare qualcosa di più grande di loro. Poteva essere un altro, ennesimo, episodio della infinita tendenza alla nostalgia di un’epoca d’oro, così comune nel cinema e nell’intrattenimento al giorno d’oggi, ed invece la ricostruzione filologica degli ambienti, dei costumi e delle tecnologie, non è fine a se stessa e non scade mai nella rievocazione nostalgica. Diventa, anzi, parte integrante del film: perché un determinato tipo di registratore è meglio di un altro, come viene trasmesso un programma radio, come funziona un centralino telefonico. La cura del dettaglio tecnico è senza dubbio una caratteristica del film, che ci porta dentro gli anni Cinquanta e dentro le sue tecnologie con incredibile perizia.
La stessa cura viene riposta nella regia, che è a dir poco sorprendente. Non solo per un esordiente! Con un budget ridottissimo e in assenza completa di effetti speciali, la perizia del regista diventa fondamentale. Ci sono 3 momenti che lasciano a bocca aperta, per ragioni differenti. Il primo è una carrellata strepitosa che attraversa tutta la città, un pianosequenza a rasoterra (sì, in stile Sam Raimi ne La Casa), che per oltre quattro minuti viaggia dal centralino fino alla stazione radio, attraversando una palestra dove si sta giocando una partita di basket ed uscendo dalla finestra (in una movimento impossibile, che richiama Antonioni nel finale di Professione Reporter), senza alcun apparente stacco di montaggio. Questo pianosequenza lascia sbalorditi, per la lunghezza e la difficoltà, tanto che si dimentica quel pizzico di leziosità che a mente fredda è evidente.
Gli altri due momenti clamorosi sono in realtà due monologhi. Non è facile in un film vedere un vero e proprio monologo, che ha tempistiche molto più teatrali che cinematografiche, e quando accade spesso è eseguito da una voce fuoricampo che parla su delle immagini montate (penso a La 25esima ora di Spike Lee, per esempio). Andrew Patterson opta per una soluzione completamente diversa. In uno dei due monologhi che durano ciascuno quasi dieci minuti, decide di tenere la telecamera fissa sul volto del personaggio che parla, l’anziana signora interpretata da Gail Cronauer. Dieci minuti di telecamera immobile sul suo viso rugoso, mentre parla. Non un controcampo. Non uno stacco sulle espressioni (che immaginiamo di stupore) dei due protagonisti. Nel secondo caso, si tratta del monologo di un ex militare che ha telefonato durante la trasmissione radio. Il suo volto non si vede, si sente solo la sua voce attraverso l’aria, attraverso le onde radio, attraverso i fili e gli speakers. Una voce che viene da un posto imprecisato, da un volto imprecisato. Potrebbe anche venire dal nulla, dalla vastità della notte, da un luogo misterioso e scuro dove le onde e i suoni si incontrano. Così il regista segue la voce fino a quel luogo, e l’ultima parte del monologo avviene in assenza di immagine: mentre noi spettatori, cioè, osserviamo uno schermo nero, da cui esce la voce.
Questi momenti anticinematici non appesantiscono la narrazione né riducono il senso di mistero che avvolge la vicenda, ma anzi lo accrescono. Violando le regole dei tempi filmici, il regista ci ammalia e ci affascina, portando la nostra attenzione quasi ipnotizzata sulla voce. È il suono (ed il sonoro incredibile, sul piano tecnico) ad essere il protagonista assoluto del film. E la macchina da presa lo segue, come fosse il suo unico filo conduttore, accelerando quando i suoni accelerano, come nel concitato dialogo fra i due protagonisti ed altri due “cacciatori” di fenomeni, incontrati per caso davanti al centralino. La telecamera volteggia intorno al vociare agitato, dove le parole si confondono, ma rimane la sensazione del sentimento (eccitazione, agitazione, sorpresa) che le regge. Se il soggetto e la trama sono semplici, i dialoghi li impreziosiscono, anche quando si lasciano andare a qualche spiegazione o si dilungano nel presentarci i personaggi, nei primi minuti del film.
L’esordio alla regia di Andrew Patterson si fa notare, nonostante sia uscito in streaming ed in tempi quantomeno particolari. Non possiamo fare altro che sperare che continui così, sperando non anneghi nella vastità di produzioni mediocri che pullula in cinema e servizi streaming, che mantenga questo sguardo indipendente e questa mano ispirata, sorprendendoci ancora con tempi e movimenti non scontati, senza annoiare né sembrare eccessivamente estetizzante.