The Shape of Water, un inno proteiforme al cinema
Fin dai primi istanti di film, abbiamo la certezza che The Shape of Water di Guillermo Del Toro sia una favola. Nella scena acquatica di apertura, infatti, il narratore ci informa che assisteremo allo svolgersi della storia di una principessa resa muta da un incantesimo (o, se preferite, chiusa in una torre solitaria – il mutismo -), di un principe all’apparenza mostruoso e di un mostro dall’apparenza umana, che molto della sua umanità ha scordato. I parallelismi con un certo cinema francese “aereo” (molti paragoni sono stati fatti con Amelie), però, finiscono qui. Perché la favola assume presto contorni terreni, finanche sessuali, ad iniziare dalla protagonista, che è una creatura umana, con sani appetiti (no, Amelie non si sarebbe mai masturbata nella vasca). Questo contribuisce a rendere il film clamorosamente grottesco e di difficile inquadramento, che solo un cast ed una regia al limite della perfezione rendono fruibile.
Perché è una favola, sì, ma grossolanamente grottesca (e la scena di sesso “inter-raziale” NON è la cosa più grottesca del film); racconta una storia d’amore, ma non è un film romantico; non è un thriller, sebbene nel finale ne assuma alcune caratteristiche ed il ritmo; ci sono i mostri, ma non è un film di fantascienza o dell’orrore; non vuole essere in alcun modo storico, ma offre dei punti di riferimento storiografici estremamente precisi (il discorso di Kennedy pone l’azione nel 1962).
The Shape of Water è tutte queste cose insieme, ma è molto di più della semplice somma delle parti. Come suggerito dal titolo, è una strana creatura, come il protagonista, senza una vera forma, ma capace di assumere la forma di ciò che la contiene.
Come l’amore.
Come il cinema.
Ancora di più che un racconto sull’amore, infatti, Guillermo Del Toro mette in atto il suo personale inno proteiforme al cinema, creatura chimerica capace di cambiare forma in base al contenitore, ma rimanendo sempre identica nell’essenza. Non è un caso che l’appartamento della protagonista sia situato sopra un cinema. Non è un caso che tutti gli oggetti di scena ed i personaggi siano rimandi, più o meno palesi, a film degli anni ’50-primi ’60 (Il Mostro della Laguna Nera, Scarpette Rosse, i film di Ginger Roger e Fred Astaire, per citare i più evidenti). L’appartamento di Elisa, come il cinema, diventa una enorme Wunderkammer, dove ogni oggetto è sorpresa e magia e rimanda ad altri mondi. La stessa creatura si troverà stupefatta nella sala cinematografica vuota, perché lì c’è il mondo (per il regista, ma anche per noi). Ed la creatura è essa stessa il cinema (oppure l’amore o entrambe): sconosciuto e quasi temuto, all’inizio, salvo poi rivelarsi qualcosa di straordinario. Tutti i protagonisti, agli effetti, potrebbero ricordare allegorie di generi e periodi cinematografici, dagli esordi fino agli anni ’60: il muto, il musical, il film di spionaggio (su cui è plasmato il personaggio di Strickland), la commedia per famiglie.
La storia è volutamente semplice e lineare nel suo svolgimento, ma nasconde in sé molta della critica sociale e storica cara al regista, per cui una favola non è mai solo una favola (si veda, su tutti, Il Labirinto del Fauno). Innanzitutto c’è la tematica della diversità. Gay, neri, disabili, donne, sono tutti ugualmente vittima del razzismo insito nella benpensante società maccartista (Guadagnino levati). Non serve sbandierarlo in maniera plateale: il razzismo machista e maschilista è in ogni frase, in ogni movimento, di quei personaggi che rappresentano la grande America. Su tutti, il cattivissimo Strickland (come sempre stripitoso e mattissimo Micheal Shannon), homo novus, proiettato “verso il futuro”, americano vero. Ha una famiglia perfetta, vive in una casa da cartolina, guida la macchina dei sogni, piscia con le mani sui fianchi. Eppure maneggia un grosso bastone stordente nero (dove sono Freud e la compensazione, quando servono?!) e il suo animo diventa man mano più tetro e marcio, tanto che lo diventa anche il suo corpo (espediente registico ben riuscito).
In lui viene incarnato tutto il marcio dell’America. Nei personaggi ai margini, reietti, tutto ciò che di buono ci possa essere. Senza alcun tipo di patetismo, anzi, quasi sorvolando questi temi. Come Spielberg per raccontare il suo olocausto si affidò inizialmente ad E.T. (ah già, E.T. è un film sugli ebrei), e dovranno poi passare quasi 10 anni perché riesca a raccontarlo in maniera esplicita, così Del Toro per raccontare la diversità così presente nell’America di oggi si affida ad una favola nera ed ad una creatura anfibia.
Una favola grottesca, ma raccontata con una regia delicata senza patetismi, con un genuino amore per il cinema e per i “mostri” (tutti), con una fotografia a tratti commovente e con un cast perfetto. Primi piani che raccontano le emozioni, spesso giustamente mute; idee bellissime (la scena del bagno) e clamorosamente artigianali; un impianto scenico quasi teatrale, con tanti piani sovrapposti, girato per lo più in (non più di 2 o 3) interni; ed una purezza di intenti alla quale non siamo abituati. Sally Hawkins riesce a rendere la sua Elisa umana ed eterea allo stesso tempo, offrendo corpo e naturalezza anche alle situazioni più grottesche. Al suo fianco, troneggia un immenso Richard Jenkins, figlio delle nevrosi del suo tempo e della sua anima (strepitose le scena col parrucchino), e Octavia Spencer, sempre ottima. Sono loro gli aiutanti magici della fiaba, insieme alla spia russa interpretata da Michael Stuhlbarg.
Lasciamo dunque che l’amore per il cinema ci riempia, lasci scappare la creatura mostruosa e bellissima che racchiude in sé e ci conduca nel suo meraviglioso mondo!
Voto: 8/9