The Missing Planet | Una mostra sull’URSS a Prato
“La nostra idea di emancipazione, per quanto radicale ma fuori dal modello rivoluzionario, è diventata totalmente funzionale all’espropriazione capitalista che integra e confonde femminismo e fashion, ecologismo e tecnologia, autonomia e subordinazione servile, libertà con regime securitario”
Marco Scotini, Curatore della mostra The Missing Planet
Cosa fare in Toscana se ti trovi nel bel mezzo di una postapocalisse sanitaria? Addentare una succosa fiorentina o sorseggiare un vino ricercato come un Aleatico dell’Elba sono di certo invitanti, ma fuori dalle capacità del mio portafogli. Quale alternativa migliore per un fanatico dell’URSS, se non trastullarsi con decadenti fantasie sull’Unione Sovietica a una mostra d’arte contemporanea a ingresso gratuito?
Ultima della trilogia dedicata alla caduta dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, The Missing Planet, in mostra fino al 23 agosto 2020 al Centro Arte Contemporanea – Luigi Pecci di Prato, richiama alla memoria il Pianeta Rosso, disperso tra le pieghe della storia quel fatidico 9 Novembre 1989. Gli entusiasmi per il mondo finalmente ricongiunto – Artisti Russi Contemporanei, 1990 – hanno lasciato il posto al lutto per la definitiva scomparsa dell’unica alternativa conosciuta al Capitalismo – Progressive Nostalgia, 2007.
La sinergia tra la curatela di Marco Scotini e l’allestimento dell’artista Can Altay ha permesso la realizzazione di uno spazio cosmico, uno space shuttle in cui opere d’arte e filmati si integrano tra loro senza soluzione di continuità. Lo sottolinea Opening Titles, 2016, di Vladislav Shapovalov, una serie di stampe che riproducono i titoli d’apertura di film in 16mm distribuiti durante la Guerra Fredda.
Le oltre 80 opere sono suddivise in tre sezioni temporali, dai giorni nostri agli anni ‘80, passando per la disillusione post-sovietica anni ‘90, e sono state idealmente racchiuse in una cornice cinematografica: Solaris di Tarkovskij, 1972, è proiettato nel primo e nell’ultimo schermo. Arrivato nello spazio, il protagonista Kris Kevin trova il proprio passato; allo stesso modo ciò che è stato esposto è la storia del museo, i pezzi che erano andati sepolti nella propria collezione. Ma il passato può essere cristallizzato nella memoria o superato dallo scorrere della storia.
Muovendo i primi passi all’interno della mostra si è catapultati nello spazio: medaglie, insegne ufficiali, il cane Leika, Gagarin, immagini di shuttle. È un momento iniziatico in cui si viene circondati da un’atmosfera squisitamente cosmista. Il cosmismo è una corrente filosofica che ha mosso i suoi primi passi in Russia durante l’Ottocento e non si è mai affievolita, diventando una coordinata epistemologica importante per comprendere questo Paese. Al centro di tale modello di pensiero è l’idea di un’evoluzione attiva e inarrestabile dell’uomo, capace di perfezionare il cosmo e sconfiggere la morte e la malattia.
Attraverso le opere si assiste a una svolta epocale: con la scomparsa del comunismo, il capitalismo ha potuto estendersi finalmente in maniera globale, è diventato ipercapitalismo (Lipovetski – Serroy, La cultura-mondo). Il mercato ha prevalso e con lui tutti i valori che si porta dietro: la competizione, il profitto, l’individualismo. Non più un livello unico in cui tutti collaborano al benessere comune, bensì una gerarchia potenzialmente scalabile da chiunque, la cui cima è di fatto raggiungibile da pochi. Chi rimane in fondo è destinato alla rovina. I podi della vittoria non suscitano gli entusiasmi della fine di una gara, ma l’amarezza e il senso di impotenza nei confronti di una corsa dei topi a cui nessuno può sottrarsi. È veramente questa condizione esistenziale l’unica possibile? Dobbiamo per forza arrenderci all’autocrazia neoliberista?
“Con The Missing Planet volevo registrare un’assenza incolmabile” dichiara Scotini “la totale cancellazione, da parte del capitale attuale, di ogni idea di alternativa, non dico percorribile ma almeno immaginabile”. L’origine di questa assenza è ricercabile negli anni ‘90, periodo a cui è dedicato la seconda sezione: sono gli anni della leninclastia. Un video mostra in loop la rimozione di una statua di Lenin in reverse. A guardarlo a lungo si ha l’impressione che questa statua fluttuante dai movimenti innaturali assuma connotazioni ridicole. Osservare la feroce critica di questi anni al sistema capitalista subito dopo gli afflati nostalgici appena lasciati alle spalle genera un corto circuito nel visitatore: come si possono comprendere gli entusiasmi sfrenati per il collasso sovietico con il terribile “senno di poi”? Madre Russia, 1990, di Leonid Sokov, mostra un orso che scrive nella neve CCCP con la propria urina. Sempre di Sokov, 1990, Due Profili mette insieme Stalin con Marilyn Monroe: è ufficiale, l’ultimo baluardo a difesa del capitalismo continuerà a vivere soltanto nei libri di storia.
Il viaggio nel tempo si conclude con la critica intellettuale alla serie di riforme volute da Gorbacev durante gli anni ‘80 che prendono il nome di Perestroika. Già in quel periodo serpeggiava un sentimento di fine inevitabile. L’Ultima Cena, 1989, di Andrey Filippov, un cenacolo con una tovaglia rosso URSS e falci e martelli al posto delle posate. Come per Gesù il momento della cena rappresenta l’estremo saluto agli apostoli prima di andare incontro al suo destino, così il riformismo tardo-sovietico sembra non essere altro che il goffo mascheramento di una fine annunciata. L’ateismo comunista si è lordato con il cristianesimo della borghesia capitalista e non ci sarà modo di tornare più indietro. Allo stesso tempo la scena biblica descrive la prima eucaristia, memoriale della venuta del Signore. Ecco che la disfatta si concilia con la memoria, l’assenza nel reale con la presenza nell’immaginario, l’inizio con la fine.
L’elevata quantità di materiale filmico purtroppo è un po’ eccessiva: molte opere hanno una durata superiore a un’ora ed è impossibile riuscire a vedere tutto dall’inizio alla fine. La prima impressione è quella di una comprensione esaustiva dell’esibizione negata. Inoltre la mancanza di cuffie genera un sottofondo sonoro composito e indistinto non sempre apprezzabile.
Nonostante ciò, The Missing Planet è un piccolo gioiello. L’esposizione delle opere tardo e post sovietiche si basa sulle teorie museologiche contemporanee, che fanno prevalere l’esperienza sulla didattica. Oltre all’integrazione tra visivo e audiovisivo, la disposizione spaziale non prevede delle tappe obbligatorie ma è il visitatore che si muove liberamente creando le proprie connessioni e il proprio percorso, all’interno della regressione temporale. The Missing Planet rimane un momento di riflessione per niente scontato: se è vero che con la caduta dell’URSS il comunismo è stato definitivamente spazzato via dalla Storia, è altrettanto vero che non sia possibile né pensabile un’altra alternativa al sistema capitalista?
Alessio Chiappi