The House that Jack Built, violare le regole della costruzione con Lars von Trier
È quasi impossibile parlare di anarchia nell’industria cinematografica, così codificata e statica, ma Lars von Trier rientra senza dubbio fra coloro che meno si allineano con il pensiero di maggioranza nel cinema. Non solo porta avanti i suoi progetti quasi senza curarsi del possibile impatto che potrebbero avere e senza considerare l’opinione pubblica ed il politicamente corretto; ma come l’anarchismo insegna, cerca anche di mettere in discussione le leggi stesse che reggono il sistema, sia sul piano formale che sul piano concettuale. Ed è interessante che questo moto provenga da uno dei fondatori del Dogma, che dell’applicazione di regole ferree faceva la sua religione! Il grottesco diventa paradigma e termine di paragone, in un film che non vuole piacere allo spettatore medio. Anzi.
The House that Jack Built mette in mostra scene profondamente sgradevoli e un protagonista fastidioso (interpretato da un camaleontico Matt Dillon). Come dai tempi di Dogville, il regista gioca col meccanismo dell’empatia nei confronti di un protagonista negativo e delle sue turpi azioni, ribaltando il tipico paradigma cinematografico. Contrariamente a quello che i film solitamente fanno, non c’è alcun intento di creare connessioni emotive con Jack, freddo calcolatore, iperrazionale e psicopatico. Ribalta così l’idea di Dancer in the Dark, nel quale la fortissima connessione emotiva con la protagonista portava lo spettatore a giustificarla dell’omicidio compiuto. Né viene mai fatto alcun tentativo per redimere il protagonista dalle sue azioni, se non attraverso l’arte. Anche in questo caso, però, il dialogo continuo con Verge (Bruno Ganz) rivela la differenza di vedute fra l’arte come mero atto artistico, che mira unicamente alla bellezza formale (rappresentato da Jack) e l’arte come atto d’amore, come più volte Verge sostiene. Il dialogo fra cinema ed arte figurativa è un topos della produzione di Lars von Trier, che in questo ultimo film arriva a concretizzarsi in una serie di quadri viventi di ispirazione dantesca (soprattutto un chiaro Delacroix, ma non solo). Lontano dalle perplessità teoriche che Pasolini rappresenta ne La Ricotta, von Trier piega il mezzo cinematografico alle sue idee. In maniera più o meno esplicita, lo aveva già fatto con Melancholia (i preraffaeliti) e ovviamente con Antichrist (Derain), che mostra più di un punto di contatto con The House that Jack Built, sia nelle tematiche che nell’atteggiamento nichilista.
La violenza è fine a se stessa, poiché arte. Non si tratta qui di un concetto nuovo nel mondo del cinema, ma declinato fino alle estreme conseguenze. Non vengono risparmiati i bambini, le mutilazioni, la tassidermia. Niente che Hollywood potrebbe mai accettare. Solo gli animali non vengono coinvolti (una legge difficilissima da infrangere al cinema). Eppure, è spesso ammantata da una patina talmente grottesca, da renderla sostenibile. Emblematico è il primo omicidio, dove la sceneggiatura è tutta sorretta dal gioco di parole inglese (intraducibile da noi) fra “jack” (il cric della macchina) ed il nome, in maiuscolo, del protagonista. Entrambi rotti, entrambi pronti a rompersi. Questo grottesco diventa via via più sottile, nel corso dei vari omicidi, rimanendo di sottofondo nei paragoni del Jack narratore e nella giustapposizione delle immagini del montaggio. Ne sono traccia l’aspetto del protagonista, che “sembra” un serial killer, o del suo furgoncino rosso. Come disvelato nel medesimo dialogo, gli stilemi tipici del genere (il serial killer insospettabile) vengono qui ribaltati per violare le leggi della narrazione cinamtografica.
Anche la patologia mentale è per Lars Von Trier fonte di allontanamento dai canoni. Non è spettacolarizzata (niente millanta personalità multiple), non è svilita. Non cade, cioè, nei due più comuni errori che il cinema compie, ma al contrario affronta il tema con competenza e senza banalizzare mai. Come già accadeva in Melancholia e Antichrist, il disturbo mentale di Jack (un grave disturbo ossessivo compulsivo e una psicopatia, con importanti tratti narcisistici) è lo sfondo su cui costruire la storia. L’impalcatura su cui l’architetto-regista costruisce qualcosa di più grande, come la fine del mondo o una storia di efferati omicidi. E lo fa in maniera ostentatamente didascalica, come viene più volte sottolineato da Verge: Jack ha il bisogno di spiegare tutto, compreso il disturbo mentale.
Da questo dialogo continuo, da questa necessità tipica del protagonista scaturiscono poi i piani di lettura del film, che come Lars von Trier ha giustamente sottolineato potrebbe essere il suo ultimo. Da questo il continuo gioco di scambi fra Jack ed il regista, che si sviluppa su diversi piani e diverse posizioni. Innanzitutto, sul discorso della creazione artistica e dell’incapacità di esserne pienamente soddisfatto. Jack costruisce e demolisce più volte la sua casa e questo è una metafora piuttosto efficace del processo creativo che accompagna la realizzazione di un film. Solo l’ultima casa gli riesce ed è una casa creata sulle persone e sul passato: una summa di azioni ed eventi che diventa costruzione artistica. Un testamento in forma d’opera, potremmo dire. Un film che riassuma tutta una carriera, nel caso di un regista (che inserisce con spiccata ironia anche spezzoni di suoi precedenti film, nel discorso artistico portato avanti da Jack).
Jack è il contraltare del regista anche nei confronti delle donne. Von Trier è stato più volte accusato di misoginia e Jack descrive solo omicidi di donne. Non perché la sua arte omicida di declini solo al femminile, ma semplicemente perché la narrazione è così migliore. L’idea di produrre e far uscire tale film in pieno periodo #MeToo rende l’operazione ancora più grottesca e caricaturale, una sorta di ulteriore presa in giro del regista nei confronti di accuse ridicole ed infondate, di cui farsi burla con scene che verranno lette dagli stessi detrattori come l’ennesima conferma dell’accuratezza dell’insinuazione di misoginia. Jack spiega, alla domanda diretta di Verge (di nuovo uno svelamento ironico dell’intenzione del regista), che non ha nulla in contrario alle donne e non uccide solo loro. Anzi, sembra dire: odio tutti indiscriminatamente. Se proprio vogliamo avanzare un’accusa, questa potrebbe essere di misantropia nichilista. Ne sentiamo tuttavia il bisogno? O è solo l’ulteriore presa in giro di un regista che gioca con noi spettatori come il gatto col topo?
I quadri descritti sono davvero scelti a caso, come sostiene Jack? Verrebbe da pensare che non lo siano e questo ci riporta al discorso sull’anarchismo con cui abbiamo iniziato. Nel suo afflato misantropo e nichilista, Jack distrugge le fondamenta della società: la borghesia acculturata e liberale, che però non riesce a cavarsela senza la manodopera (il primo episodio, con la splendida Uma Thurman), la proprietà (rappresentata dal primo strangolamento, l’unico in cui la casa ha un ruolo fondamentale nella narrazione), la famiglia (con tanto di bambini), e anche il sentimento, nella macellazione della ragazza che lui chiama Simple. L’aspetto politico, inoltre, non finisce qui, dal momento che nella “caccia” a mamma e figli Jack indossa un cappellino rosso di chiara fattura “trumpiana”.
Non posso immaginare si tratti solo di coincidenze. Oppure, di nuovo, il regista gioca con noi e le nostre aspettative, mostrandoci esattamente quello che vogliamo vedere, come Jack fa con Verge, in un continuo gioco di rimandi fra il protagonista del film ed il suo regista. Da questa (apparente?) complessità di livelli, o dalla loro grottesca giustapposizione, il film trae la sua linfa, che non si sgonfia nemmeno nella parte finale “dantesca”, realizzata interamente attraverso quadri animati.
Didascalico, violento, folle, a tratti disturbante. Eppure il cinema secondo von Trier deve essere così. E noi speriamo davvero che questo non sia il suo testamento.