The Dead Don’t Die, il senso per la morte di Jim Jarmusch
È difficile riuscire a dire qualcosa di nuovo con gli zombie: fra tutti i personaggi dell’horror, sono forse i più abusati e svuotati di ogni loro slancio (vitale?) metaforico. Nati come masse politicamente rilevanti nella mente di Romero, oggi rilegati al ruolo di “indiani” nel western ormai fiacco di The Walking Dead. Eppure, esercitano ancora il loro fascino ed ogni tanto qualche rilettura vale la pena di essere valutata (cito, da ultimo il capolavoro meta-cinematografico One Cut of the Dead, di cui magari parleremo un’altra volta). In questo panorama piuttosto morto (ma vivente, ovviamente), The Dead Don’t Die, ultimo lavoro del regista Jim Jarmusch, non è solo il tentativo di ribadire il ruolo politico e sociale degli zombie, ma è la fine di un percorso (forse l’inizio di una nuova strada) nella storia del regista.
I morti si risvegliano e terrorizzano i vivi, a partire da un’anonima cittadina americana, tutta motel e diner. La causa siamo noi: abbiamo incasinato l’asse terrestre con lo sfruttamento dei poli, provocando l’inimmaginabile. Il giorno e la notte hanno durata imprevedibile, la luna manda strane esalazioni e i morti risorgono.
Jarmusch non cerca in alcun modo lo spavento e l’horror rimane relegato alla trama di fondo, ai topoi di genere che il regista snocciola in abbondanza, ed alle continue citazioni. La struttura è quella di un horror classico, con riferimenti a Romero (alcuni addirittura dichiarati nei dialoghi), mani che spuntano dalla terra smossa di una tomba, giovani in vacanza che si perdono e finiscono nel peggior posto possibile e poliziotti impreparati. Non manca nulla alla ricetta, ma il regista con questi ingredienti crea un piatto tutto diverso. The Dead Don’t Die è prima di tutto una commedia, a tratti esilarante, retta da una sceneggiatura completamente assurda e grottesca e da attori che divertono e si divertono facendo i caratteristi (su tutti, il sempre strepitoso Bill Murray). Il grottesco è il tono prevalente, anche quando lo spazio viene lasciato alla riflessione sociale e politica, che forse è l’aspetto che interessa di più a Jarmusch.
Gli zombie tornano ad essere riflessione sull’uomo e, anche senza bisogno dello spiegone finale dell’eremita interpretato da Tom Waits, è chiaro che rappresentano la nostra società. Siamo zombie ben prima di morire (e risorgere, eventualmente). Siamo zombie perché privi di coscienza, di noi stessi e degli altri. Guidati da passioni materialiste e sterili, che sono il centro della nostra non-morte o non-vita (Chardonnay, cit). Condannati a ripetere gli stessi gesti ed a mangiarci l’un l’altro, in un mondo postapocalittico (da noi creato) dove non c’è spazio per alcuna solidarietà.
Solo gli emarginati ed i reietti sopravvivono, chi questo mondo non lo abita per davvero. L’eremita che vive nei boschi cacciando e citando Moby Dick; i ragazzini di un riformatorio, che assistono impotenti alla distruzione da dietro le finestre blindate. Loro soli scappano alla non-morte, già in vita. Neppure essere figure positive (i due poliziotti Adam Driver e Bill Murray), capaci di fare il proprio dovere fino alla fine, è sufficiente a redimerci. Il film col messaggio più cupo del regista è anche quello più sfacciatamente comico, come a ribadire che solo il grottesco e l’ironia possono (forse) salvarci. O almeno alleviarci il morale durante il viaggio finale.
Il film, inoltre, si pone alla fine di un discorso con la morte iniziato dal regista oltre vent’anni fa. In Dead Man la (quasi) morte era un percorso di presa di coscienza (di nascita della coscienza) per William Blake-Johnny Depp, che iniziava il film muovendosi come una sorta di sonnambulo (non-vivo) e compiva il suo percorso iniziatico solo una volta ferito mortalmente (non-morto). Pochi anni dopo Ghost Dog segnava il prosieguo di questo discorso con l’Oscura Signora. Il protagonista è un killer che segue i dettami dell’Hagakure, il libro dei samurai. Il precetto fondamentale dell’Hagakure è: “la via del samurai è la morte”, intesa come completa adesione ad un codice di leggi e ad un percorso di disciplina e autocoscienza.
Ma quelli erano gli anni Novanta. Giunti nei duemila (anzi, negli anni Dieci), la morte cessa di essere stimolo conoscitivo e capace di risvegliare l’animo dormiente del vivente non-vivo, ma diventa immortale, eterna contemplazione di quel tempo immobile che è l’eternità. Only Lovers Left Alive è la parabola rock del nostro mondo in fase discendente, senza più linfa. L’arte, la musica e l’amore, baluardi cristallizzati dell’eterno fanno sopravvivere i vampiri (non-morti, ma più vivi dei non-vivi), a cui Jarmusch non guarda come cacciatori, né come seduttori, quanto più come spettatori di un mondo che si avvia alla rovina. Impassibili e cristallizzati, come le poche cose destinate a sopravvivere. The Dead Don’t Die porta alle estreme conseguenze il concetto: è indicativo che in tutto il film non ci siano coppie né relazioni sentimentali. Neppure l’amore che animava i vampiri di Only Lovers Left Alive può alcunché nel mondo ormai senza speranza di The Dead Don’t Die.
Non si intravedono relazioni sentimentali fra i tre ragazzi “hipster” che cercano di fuggire da un mondo condannato dalla generazione a loro precedente; non ci sono coppie dichiarate sullo schermo, a parte qualche allusione fatta dal personaggio di Bill Murray nei confronti del cadavere fresco che viene tenuto in cella, perché all’obitorio non c’è più spazio (neppure lì, come all’inferno). Chardonnay. Non sono una coppia neppure Adam Driver e Chloe Sevigny, che risponde in maniera negativa alla domanda diretta della strampalata nuova becchina del paese, Tilda Swinton. E alla luce del finale del suo personaggio e del rapporto con Only The Lovers Left Alive, interpretato dalla stessa Swinton, questa domanda assume un connotato programmatico. Se ormai non esiste più neppure l’amore, forse davvero meritiamo questa fine e non serve affannarsi tanto per evitarla (ma la domanda rimane: Tilda Swinton avrebbe potuto fare qualcosa e sceglie di non farlo?).
L’occhio sornione di Jarmusch guarda anche alla propria cinematografia, oltre che a quella horror, in un continuo gioco di rimandi, alcuni molto evidenti (Night on Earth), altri meno. I dialoghi ed i tempi sono figli della cinematografia indipendente del regista, non certo del cinema di genere, relegato come il mondo intero ad uno sterile negozio di memorabilia gestito da un enrd! Sono gli attori a farsi portatori di legami con questa filmografia e ad approfondire ulteriormente il tema del non-morto. Oltre alla già citata Tilda Swinton, vediamo RZA, compositore americano che già aveva firmato la colonna sonora di Ghost Dog; Tom Waits che forse è sempre rimasto nei boschi dopo il finale di Daunbailò. Iggy Pop compare già come non-morto, unico personaggio del film a non avere alcuna vita prima della non-morte. Il cantante è anche nella vita vera un sopravvissuto di un tempo ormai finito, di una vita che non c’è più.
In ultimo, Adam Driver oltre ad essere la perfetta controparte di Bill Murray, è anche il rappresentante di tutto l’aspetto meta-cinematografico del film. Jarmusch si diverte con Driver ad abbattere la quarta parete, più e più volte, a partire dalla ripetizione ossessiva della canzone che dà il titolo al film. Non si tratta solo di un gioco intellettuale volto ad aumentare il senso del grottesco, ma di un ulteriore livello di lettura della figura dello zombie. Gli attori sono obbligati a mettere in scena un copione (quasi tutti, almeno), senza alcuna libertà individuale; sono destinati a ripetere in maniera automatica le azioni a loro imposte, senza alcuna coscienza di sé, fino ad avviarsi alla fine già scritta ed assolutamente inevitabile.
Zombie siamo noi che non viviamo; zombie sono gli attori che non possono vivere. Entrambi destinati ad una fine tragica quanto inevitabile. Cosa rimane, allora? Una risata che ci (non) seppellirà?
(Il film ha anche dei difetti piuttosto evidenti, ma Tilda Swinton con la katana li spazza via in un secondo.)
KILL THE HEAD