The Big Shave, la metafora autodistruttiva di Martin Scorsese
Ben prima dei fasti italoamericani e dei film con il nostro Leo, Martin Scorsese era uno studente universitario negli Stati Uniti degli anni sessanta. Nel 1967 presenta il suo terzo cortometraggio, The Big Shave. L’anno di uscita non è solo una informazione a latere, ma racchiude la chiave di lettura della metafora che rappresenta il cortometraggio.
Un uomo entra nel bagno (di casa sua?). Pulito, luminoso. Ed inizia a radersi. Il montaggio e la colonna sonora degli anni ’30 rimandano all’immaginario della pubblicità. Ecco il sogno americano. FInché il sogno non diventa un incubo e la rasatura prosegue senza sosta fino alle estreme conseguenze. Ancora una volta il montaggio e la colonna sonora sono protagonisti, anche perché il corto non presenta (né ammette) parole o dialoghi. Ma l’immaginario da pubblicità si infrange presto, la su superficiale perfezione crolla e la patina di perfezione si infrange. L’azione del protagonista, ripetuta, quasi ossessiva, e senza senso (il protagonista entra in bagno già sbarbato fin dall’inizio) crea una sensazione di completo straniamento, ampificata dalla colonna sonora dissonante. Il candore del lavello si tinge sempre più di sangue rosso, la sua bianchezza pura macchiata e distrutta.
Anche l’atto più semplice e naturale, come la rasatura della mattina, può trasformarsi in un terribile orrore. E la bianchezza (ricordata dalla citazione di Moby Dick, nei titoli di coda) può trasformarsi in un lago di sangue. Quella bianchezza che nella sua perfezione è già motivo di inquietudine e che rimanda, si tratti di rasatura o di balene, ad un presagio terribile.
La metafora sottostante è la guerra del Vietnam, come più volte ripetuto dallo stesso regista. L’insensatezza dell’apparato militare americano, come del gesto di radersi fino a veder zampillare il sangue. Il sangue che continua ad uscire, che neppure l’acqua del lavello riesce a rimuovere, come grido disturbante per tutti i caduti in una guerra inutile quanto mal gestita ed, in ultima analisi, autodistruttiva. Non servono parole. Scorsese si affida ad una fotografia (di Ares Demertzis) gelida quanto abbagliante, che esalta il candore ed il contrasto con il sangue, ed al montaggio, preludio di una sua personale stagione cinematografica ancora da venire.
Disturbante e potente nella (proprio per) sua semplicità.