TFF38: Ouvertures | Il teatro collettivo tra Storia e identità
” Je suis Touissant Louverture. Mon nom c’est peut-être faire connaître jusqu’à vous. J’ai entrepris la vegeance de ma race. Je veux que la liberté et l’égalité régnent à Saint-Domingue. Je travaille à les faire exister. Unissez- vous à nous, frère , et combrattez la même cause, déracinez avec moi l’arbre de l’esclavage.”
Lo scandire sussurrato di questo proclama tanto politico, quanto identitario satura gli spazi degli Archivi Nazionali francesi, ove gli scritti del rivoluzionario haitiano del ‘700, Touissant Louverture, ne rievocano il fantasma e aprono il primo atto del (not-quite) documentary Ouvertures, dei registi Louis Henderson e Olivier Marboeuf, presentato alla 38° edizione del Torino Film Festival (TFF).
Lontano dall’agiografia, la definizione di documentario appare riduttiva. Ne mantiene la traccia, ma si tratta più di una cronologia inversa, di un viaggio onirico à rebours della vita del leader dalla sua prigionia e morte in Francia per mano di Napoleone, a Port- au -Prince, dove, nel presente, il gruppo artistico, The Living and The Dead Ensemble, adatta e rielabora in creolo l’opera teatrale Monsieur Touissant di Édouard Glissant (1961).
In un biancore opprimente, tra le cime del Giura, le parole e lo spirito di Louverture vengono cercate in quell’ultimo orizzonte visivo, suggerendo un’archeologia del sepolto colonialismo della Francia. In quello che un tempo fu un oceano tropicale, la Storia fossilizzata può essere portata a nuova vita. La stratigrafia delle rocce diventa lettura stratificata del passato. L’overture dell’Orfeo di Monteverdi non è casuale. Offre un ulteriore livello d’interpretazione.
Come il suonatore di lira che nella discesa verso l’Averno fa “cessare il fragore del rapido torrente e l’acqua fugace”, noi siamo accompagnati nelle profondità del suolo. Nel silenzio e nell’imperiosità di questo spazio naturale, la parola di Louverture ribolle la materia inerte e si libera nella potenza drammatica dell’opera di Monteverdi. Bring breath to the death of rocks, indica il titolo del primo atto. Un imperativo che si realizza in questa suggestiva uscita dalla grotta, ove lo spettro dimenticato vince l’oblio e si rimpatria in un corpo verso Haiti.
Con il secondo breve atto, These lowest depths these sounds, siamo posti di fronte a un’installazione immersiva. Tra celluloide e video digitale, un mare in tempesta, accompagnato da tamburi insistenti, inonda lo schermo. Non è solo un’espediente per giungere all’isola, ma un richiamo al ruolo di facilitatore e di testimone della terrificante violenza della tratta degli schiavi.
In questa vertigine marosa, in cui i morti sono legati ai vivi, veniamo spinti insieme a Louverture, in veste di voyeurs, lungo le strade animate di Port- au- Prince, dove l’Ensemble, non solo sta preparando la produzione del proprio spettacolo, ma con essa sta maturando un sentimento più profondo. L’atto creativo è atto politico, riflessione sulla propria eredità storica, sulla figura dell’eroe giacobino nero e anelito verso il futuro.
Tra teatro sperimentale e tragedia, nella terza parte, gli attori vengono ripresi nello sforzo collettivo ed autonomo di creazione di una voce mobile, instabile, che ha possibilità di esprimersi da una prospettiva caraibica. La spinta ad una rivoluzione permanente serpeggia in tutto Ouvertures.
La narrazione è ridiscussa e si sviluppa su un’architettura a spirale, realizzando uno dei motivi fondamentali della cultura creola e della letteratura haitina (Spiralismo). Si attua la rottura con la verticalità del linguaggio occidentale, individuata da Frankétienne e da Glissant, come prodotto dell’esperienza storica e politica europea dello Stato-nazione.
Il caos e la pratica quotidiana della sua gestione – secondo Marboeuf- sono fattori imprescindibili da Haiti, isola flagellata da eventi dirompenti come uragani, terremoti, regimi dittatoriali e insurrezioni. La spirale, in bilico tra forze centripete e centrifughe, si pone come risposta allegorica al tentativo di convivenza in uno spazio caotico. Essa inoltre è un processo attraverso il quale le idee non nascono come una proiezione chiara delle mente, ma emergono tramite la stratificazione e l’accumulazione di voci e visioni. Ouvertures assume su di sé questa consapevolezza.
Nel moto eolico del terzo atto, We stand our mouths open under the sun, il movimento sia creativo che fisico viene colto nel suo farsi. Il film vive negli spazi interstiziali delle conversazioni, dei gesti e delle transizioni tra luoghi delle persone, tra Storia e presente. L’assistere gli attori nelle loro divagazioni itineranti, racchiude in sé quel viaggio affascinante nel concetto di rivoluzione e identità di un Paese. Il progressivo allontanamento dalla capitale è affermazione politica.
Port- au- Prince è “una macchina che non dorme mai”, una sorta di repubblica per gli haitiani, influenzata dal colonialismo, sito degli eroi, che per lungo tempo si sono scontrati con le campagne e gli schiavi. Si abbandona il centro a favore delle periferie. Viene messa in evidenza la relazione tra “l’errare” dei cimarroni (maroons), schiavi fuggiaschi, costretti per sopravvivere a un moto perpetuo e la creazione dell’esperienza collettiva. Abbiamo la decomposizione della narrazione dell’eroe, come singolo eccezionale.
Ouvertures non è un film perfetto, ma ne è consapevole. Eccessivamente avviluppato nelle proprie pretese e presupposti, rischia di diluirsi in una pletora di idee e situazioni, gestite da mani non sempre ferme. Tuttavia, quando al centro di queste perturbazioni, si svolgono i momenti più intimi dell’Ensemble, appare chiaro come il perdersi sia un modo per (ri)conoscersi e cercare il proprio posto sia nella comunità insulare haitiana, che nell’umanità.
C’è grande rispetto nell’accostarsi all’aspirazione teatrale come strumento di proiezione verso l’esterno, poiché coscienti della dolorosa eredità del passato. Particolarmente rappresentativa è la discussione tra due attori sui significati di cittadinanza, identità e “africanità”, comprese le differenze generazionali tra coloro che desiderano essere cittadini del mondo e coloro che credono che un tale concetto sia fondamentalmente introvabile.
Se questa abbondanza da un lato disorienta, dall’altra, offre ouverture, aperture, che a partire dal linguaggio si fanno rivoluzione. Il cervello si aggrappa qui, tra le percussioni della Rara Orchestra, nella contezza del portato sconvolgente, poroso e fallibile del movimento, che presto potrebbe diventare azione collettiva.
Titolo | Ouvertures
Regista | The Living and The Dead Ensemble – Louis Handerson – Olivier Marbeouf
Anno | 2019 (uscita italiana 2020)
Durata | 132′