Dal niente alla Terra – Le Luci della Centrale Elettrica

Dal niente alla Terra – Le Luci della Centrale Elettrica

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Se c’è una cosa che non comprendo di certo cantautorato italiano è questo confondere la totale mancanza di contenuti per ermetismo di altissimo livello, atteggiarsi da novelli Baudelaire quando al massimo si è un rantolo d’alcolismo tenuto male.
Va da sé: non mi sono mai approcciato con grande simpatia a Le Luci della Centrale Elettrica (moniker del ferrarese Vasco Brondi, nome molto meno fotografico). Ho ascoltato con attenzione i primi due dischi, finendo sempre con un retrogusto di inconsistente e incompiuto, che forse era anche il suo obiettivo: non lasciare tracce, non dire niente, ma farlo piuttosto bene al netto di una dubbia intonazione vocale e di giri d’accordi che al confronto Ligabue è la definizione stessa di varietà.
Il terzo lavoro, Costellazioni, è un movimento laterale. Poco a fuoco ma meno fine a se stesso, seppur non indimenticabile. La mia attenzione aumenta, complice anche la produzione di Federico Dragogna: se scrivi da anni per i Ministri fai fatica ad accettare il vuoto cosmico in luogo della sostanza.

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Insomma, quando annunciano che il quarto disco de Le Luci è in uscita, sono finalmente curioso e ottimista insieme.
Quando poi ne scopro il titolo, “Terra, allora quasi mi emoziono: dopo tutto questo vagare per luoghi senza contorni nitidi e costellazioni, siamo finalmente arrivati a terra, quella terra che puoi trascurare ma è cibo, base d’appoggio e grido di gioia per marinai.
La metamorfosi è completa, Vasco abbandona le belle parole vacue e si toglie gli occhiali da trip acido, imbraccia la chitarra e si guarda attorno deciso a raccontare solo ciò che è vero, visibile, tangibile. Terra è scritto osservando, toccando, viaggiando. Restando stupiti (o basiti?) dalla realtà.
Non è mai troppo tardi.

In Coprifuoco, ad esempio, ecco la riflessione amara sulle ambiguità umane in bilico fra bellezza e schifo: “cos’è che ci ha fatto inventare la Tour Eiffel, le guerre di religione, la stazione spaziale internazionale, le armi di distruzione di massa, le canzoni d’amore?”. Indubbiamente uno dei picchi dell’album.
Poi è tempo di salti nel sociale, tra il ritorno alla provincia dopo gli schiaffi delle metropoli (Nel profondo Veneto), il sempiterno tema dei migranti (Waltz degli scafisti) e la critica ai social di Iperconnessi.
Non esattamente da premio Nobel per l’originalità, eppure tutto sempre ben scritto, lontano dalla banalità anche nei territori più impervi.
Anche le canzoni più libere, meno vincolate a qualcosa di specifico da dire, mantengono costante il legame con l’attuale, con una base reale da cui non si sfugge mai. Qui si percepisce il vero salto di qualità, lo sfruttamento totale di una poetica superiore alla media.
È il caso di Moscerini, semplice racconto per immagini fra la vita e la morte, più album fotografico che canzone vera e propria. Nel ritornello, tutto si fa d’effetto: “E poi dormire da soli, contare i secondi fra i lampi e i tuoni, per cercare di capire quanto sono lontani i bombardamenti e i temporali”. Bellissimo.
E ancora in Stelle Marine, la chiosa “l’acqua si impara dalla sete, la terra dagli oceani attraversati, la pace dai racconti di battaglia” a incorniciare un racconto sfuggente, dove compare un cielo raro e comunque osservato ben piantati a terra.

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A me di questo disco piace tantissimo anche il suono, con il Fede che toglie la divisa ministrica in favore di atmosfere acustiche e tribali, da world music, percussioni e strumenti etnici, con un risultato finale che non sarà Creuza de Ma (sempre sia lodato) ma regge davvero bene e non sembra mai posticcio, italiano. L’unica vera pecca resta una voce non sempre sul pezzo e quasi mai in grado di slanci melodici degni di nota.

Che questo sia da considerare o meno il disco della maturità de Le Luci della Centrale Elettrica, resta un’impronta fondamentale già dai primissimi ascolti.
È visibile lo strappo con un passato intrigante ma anche limitante, invadente. Era necessario per non chiudersi in un’immagine che forse non rappresentava nemmeno più l’artista.
Per spiccare davvero il volo, a volte, è sufficiente rimanere per Terra.

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