Suspiria, la stregoneria intellettuale di Luca Guadagnino

Suspiria, la stregoneria intellettuale di Luca Guadagnino

A metà fra Mamma Mia e Black Swan (indeciso du quale dei tue faccia più paura)

Non sono un fan di Guadagnino e, d’altra parte, ho formato il mio apparato visivo anche sui colori lisergici del Dario Argento in fase stupefacente dura. Non è difficile immagine come mi sia approcciato al remake di Suspiria, realizzato da un regista che per parlare di sesso gay usa una pesca. Per dire. Mi sono seduto al cinema con la morte nel cuore, sapendo che mi sarei pentito di questa mia domenica pomeriggio buttata in un remake “d’autore” di cui nessuno sentiva il bisogno, anche perché un remake-non-remake già c’è ed è abbastanza matto per reggere il gioco.

E invece ho dovuto ricredermi. A partire dai titoli di testa, dal titolo del film che non è dove dovrebbe essere. Sono uscito non solo soddisfatto dalla sala, ma francamente ammirato. Ovviamente ci sono delle pecche, ma pure il film di Argento aveva buchi di trama qua e là riempiti di sangue troppo rosso e colori troppo saturati.

Ho deciso quindi di fare una recensione divisa in tre madri, per onorare il lascito (oggi diremmo legacy) nell’horror di Suspiria. Entrambi.

SIGLA!

Mater Suspiriorum, il film

L’horror può essere pura paura catartica, favola atemporale o racconto ben radicato nella realtà. Così come la fantascienza, l’horror può avere un intento politico e le radici ben salde nel mondo; e insieme alla fantascienza, può permettersi libertà che altri generi non sanno prendersi. Guadagnino sceglie questa ultima interpretazione dell’horror, in chiave politica, laddove Argento optava per le prime due.

Il nuovo Suspiria è ambientato nel 1977 (anno in cui l’originale è stato girato), in una Berlino devastata dal conflitto sociale e dal terrorismo. La Storia entra nel film dalle finestre, dalle scritte sui muri, dalla televisione che racconta degli attentati della RAF. Non si tratta solo di scelta stilistica, ma anche dell’idea stessa su cui si regge il film. Dietro ogni facciata, dietro agli onnipresenti specchi, si annida qualcosa di oscuro e malvagio. Perché ormai lo sappiamo bene: il Male (in maiuscolo) è ovunque (“Perché sono tutti pronti a credere che il peggio sia passato?”), è banale e si nasconde dietro alle maschere perbeniste della società. Una nazione come la Germania lo sa bene, sempre in bilico fra colpa/vergogna e rivalsa. I tre personaggi interpretati da Tilda Swinton sono il fulcro di questa tesi, tutti rappresentano forme del male incarnato da combattere e, se possibile, da distruggere. Madre Markos è il male del passato, orrendo ed immediatamente visibile; Madame Blanc è il male moderno, più subdolo, manipolatore e capace di sembrarti addirittura positivo (capitalismo, mi leggi?), ma da cui è possibile anche imparare; il Professor Klemperer è il male di chi osserva e non fa nulla. Solo quest’ultimo, nella figura dell’anziano psichiatra, merita il perdono se da testimone passivo si fa portatore di memoria. Susie è il futuro, volutamente ambiguo, che nasce da questo passato che conosciamo o crediamo di conoscere.

I ruoli, poi, sembrano avere ulteriori significati, che rimandano direttamente ai totalitarismi del Novecento. Il Professore, ad esempio, è sopravvissuto al rito stregonesco, così come all’olocausto. Similmente, la danza così come è intesa da Madame Blanc è un rito (magico) spersonalizzante, che priva di individualità e soggioga ad una volontà superiore; in cui una persona è solo una parte (del corpo, come più volte ripetuto). Anche questo è un rimando piuttosto evidente ai totalitarismi ad al concetto di corpo e di potere in politica, senza dover necessariamente arrivare alle teoria magiche con cui il Nazismo ha provato a riempirsi. Il potere è un altro nucleo tematico del film. Non dipende da chi lo esercita, non ha colore né genere. Può essere esercitato in una scuola di danza, da una madre troppo religiosa (quella di Susie), nelle piazze che entrano in casa o dal totalitarismo in cui è sparita la moglie del Professore.

L’unica maniera per sfuggirvi è racchiusa nell’unico vero colpo di scena del film e passa per l’appropriazione del sé e l’affermazione della propria personalità di singolo, dove il corpo smette di essere il campo di battaglia di altre lotte, ma diventa la casa su cui fondare l’emancipazione. Non si tratta di una emancipazione necessariamente positiva e non ha i connotati solamente femministi, ma parla a tutti.

A sinistra: Argento in tonalità beige-povertà; a destra: un regista di Berlino est.
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Mater Tenebrarum, il remake

Il rapporto fra il film di Guadagnino e quello di Argento è ambiguo. Non potendo replicare il capolavoro del maestro dell’horror, decide di affrontare strade completamente differenti. Fin dai titoli di testa inizia ad insinuare nello spettatore il sospetto che qualcosa non vada. Il film, come la scuola di danza, cela dietro ogni specchio qualcosa di nascosto. La telecamera si muove invisibile su questi specchi e segue la scia di Argento in termini di regia in alcune scene (carrellate rapide es espressioniste che partono dagli specchi per arrivare al primo piano della protagonista), distaccandosene completamente in altre (lunghi e bellissimi pianosequenza, come quello della cena delle insegnanti della scuola).

Le architetture e gli esterni (quasi) surrealisti e metafisici (nel senso pittorico del termine) di Dario Argento vengono sostituiti con i grigi palazzi berlinesi, coperti di manifesti di propaganda e di scritte che inneggiano alla liberazione di ostaggi politici. Ugualmente, il colore supersaturo di Argento, viene qui sostituito da una palette di grigi-muro e beige-proletariato. L’ispirazione di Guadagnino è doppia: guarda ad Argento quanto ai registi tedeschi dell’epoca in cui il film è ambientato, tanto da ricordare Fassbinder a tratti, più che il regista italiano.

Senza dubbio il lavoro migliore è quello di montaggio di Walter Fasano: le tre sequenze di danza sono piccoli gioielli di montaggio. E racchiudono in sé le uniche parti realmente horrorifiche del film. Argento mette in mostra la paura, senza remora alcuna. Guadagnino non fa paura, eppure inserisce tre sequenze di puro horror visivo all’interno di un discorso nei confronti dell’orrore più generale, gestito dalle atmosfere e dalla storia.

In tutte e tre le sequenze la danza diventa incantesimo stregonesco ed il montaggio ce ne mostra i risultati, saltando continuamente fra una movenza magica e quanto questa provoca. Senza dubbio, la scena del sabba finale è una delle più riuscite, dove la danza diventa vera e propria body art (sì, Tilda Swinton assomiglia a Marina Abramovich, non è esattamente un caso) ed i colori ricordano l’originale senza per questo copiarlo, ma diventando quasi un velo che copre la scena principale. Proprio nel sabba finale (e solo nel sabba) viene consumato tanto sangue finto quanto nel film di Dario Argento.

Questo è horror. Il resto ‘nsomma…
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Mater Lachrymarum, l’intellettualismo

Come in ogni trilogia, veniamo all’anello debole. Come tutti sanno, dei film sulle Madri il terzo e più recente è il meno riuscito, in ogni suo aspetto. A questa ultima Madre, quindi, consacriamo la parte più negativa del film di Guadagnino.

Il maggior pregio del film è allo stesso tempo il maggior difetto. Se togliamo le tre splendide scene di danza-magia, il film di Guadagnino non è un film horror. Non ne ha l’impatto sulla pancia del paziente e rischia di perdersi negli eccessi del suo stesso intellettualismo. Ormai è difficile trovare un horror che abbia il giusto compromesso fra pancia e testa, e sicuramente Guadagnino punta tutto sulla testa. A tratti sembra quasi che il genere horror venga considerato minore e che un regista “sofisticato” si prenda la briga di nobilitarlo, facendo vestire le ballerine solo di corde per indicare quanto sono “controllate” dalle streghe, che però rappresentano il totalitarismo o la socieltà. Blink* Blink* [*ammiccamento intelligente fatto al pubblico intelligente*]

Per fortuna, l’horror non necessita alcuna nobilitazione. Basterebbe iniziare a pensare che esistono solo due tipi di film (vale anche per i libri, per esempio): quelli belli e quelli brutti. Il film di Guadagnino rimane fra i belli, sebbene affronti l’horror con un filo di spocchia e con un approccio eccessivamente intellettuale. Da parte di un regista che dieci anni fa dirigeva Melissa P magari no.

 




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