Chronicle
La tecnologia ha creato nuove vie di sfogo al narcisismo nella nostra cultura (non solo) occidentale; non solo come narcisismo verso la propria immagine, ma come necessità insita di rendere immagine ciò che ci accade, di fissare eternamente ciò che ci accade e noi stessi. In poche parole, il mondo di cui siamo centro e perno. Fino al parossismo che le cose sono per davvero accadute, solo se immortalate. Così fioriscono app fotografiche sui cellulari e mezzi di condivisione di immagini e video, perché coesiste la necessità di avere una platea. Uno dei motori portanti di questa rivoluzione del concetto e dell’uso dell’immagine è certamente Youtube e la sua universalità. Non c’è altra necessità, se non quella dell’appagamento del proprio istinto narcisista, nel condividere col mondo i video delle proprie bravate, ben sapendo che tutti le vedranno e che si verrà beccati, se sono state bravate di rilevo.
Questo tipo di cultura, fortemente influenzata dalle tecnologie in sviluppo, ha contagiato anche il cinema. Non stupisce, dunque, che proprio gli anni duemila abbiano visto il maggior numero di film foundfootage. Con foundfootage (che si sovrappone a mockumentary e sfiora anche lo snuff movie) si intendono quei film nati dal ritrovamento di pellicole amatoriali, che hanno preso una buona fetta del mercato del cinema di genere (horror e sci-fi, soprattutto). Questo genere di regia non nasce con Youtube (emblematico e straordinario il CannibalHolocaust di Ruggero Deodato, uscito nel 1980), ma conosce nuova linfa proprio negli ultimi dieci anni, rilanciato da The Blair Witch Project, agli inizi del nuovo millennio. Da allora, abbiamo visto un fiorire di film (fintamente) realizzati con telecamere amatoriali, sia sul grande schermo che sul pc (sono nate moltissime serie su Youtube, realizzate col foundfootage. Basti pensare alla vasta produzione dedicata a Slender Man – non pensatelo, non cercatelo -).
È indubbio che la tecnica abbia dei vantaggi: il costo, spesso minore di un film “classico”; una certa immediatezza, soprattutto in alcune scene (per esempio quelle più concitate); la possibilità di tagliare la scena a piacimento e riprenderla più avanti, dal momento che la finzione prevede un montaggio di pezzi di filmati ritrovati, e la conseguente possibilità di spaventare lo spettatore. Proprio per questo il genere horror ne ha beneficiato, forse più che gli altri generi (i recenti Paranormal Activity, la serie di Rec…).
La tecnica, però, ha anche delle notevoli limitazioni, insite nell’idea stessa. Perché, di grazia, dovrei scappare da mostri alieni con un telecamera, che ingombra, in mano? Non sarebbe più comodo usarla come arma contro lo zombie di turno? Certo, possiamo abbracciare passivamente la finzione, ma spesso è difficile (anche se JJ Abrams ci ha messo le mani, Cloverfield rimane poco credibile). I registi si trovano, quindi, di volta in volta, ad escogitare nuove idee per rendere più reale qualcosa che reale dovrebbe apparire (è ben più semplice fare finzione, che realtà). Alcuni ci riescono (il già citato Rec di Paco Plaza e il semisconosciuto, ma geniale, Trollhunter di Ovredal), altri meno.
In questo panorama, si inscrive un piccolo film che fa tesoro del passato e ci dà più di una lezione, riguardo il foundfootage/mockumentary. Si tratta di Chronicle di Josh Trank. L’idea è semplice e già vista: tre adolescenti si ritrovano con dei superpoteri, dopo essere venuti in contatto con uno strano artefatto, forse alieno. Impareranno ad governarli, con un’umanità difficile da vedere a Hollywood, usandoli per fare scherzi al supermercato e stupire gli amici (esattamente come farebbe ciascuno di noi, ammettiamolo!). La non convenzionalità risiede nella maniera di raccontare la storia. La scena è perennemente ripresa dalla videocamera di Andrew (il giovanissimo Dane DeHaan), che il ragazzo muove attraverso la telecinesi appresa. La telecamera ruota attorno ai protagonisti, li segue, non più come ingombro, impossibile da portare nella fuga, ma come muto spettatore, come parte del cervello del ragazzo, che con lei si confida. Un ottimo artificio, per superare la difficoltà a rendere verosimile la ripresa amatoriale, e per dare totale libertà d’azione al regista, che sfrutta al massimo queste potenzialità.
Va tutto bene, finché tutti non si fanno male. Andrew è un ragazzo fragile e con una famiglia problematica alle spalle; non voluto a scuola, poco voluto anche a casa, è il classico freak dei licei americani, dove apparire è tutto e la lotta sociale è vinta dal quarterback e dalla cheerleader con due noccioline al posto del lobo frontale. Il ragazzo, splendidamente interpretato dal giovane DeHaan, dallo sguardo teso e rabbioso, spera di essere accettato grazie ai suoi nuovi poteri, ma le cose vanno diversamente e il film giunge al culmine in un escalation di violenza, con tanto di scontro epico fra il protagonista e l’amico Matt, l’unico vero amico, fino all’ultima scena.
Il film segue plurime tematiche, senza abbracciarne una definitivamente (e questa è una pecca), ma lanciando validissimi spunti su ognuno, il tutto realizzato il una Seattle algida e metallica, spesso verticale, da un gruppo di attori giovani e poco noti, ma efficacissimi. L’adolescenza è un periodo difficile, per tutti, ma è anche il periodo dove ci crediamo invincibili e capaci di ogni cosa (quanto di più vicino ad un supereroe si possa immaginare); quando il senso di onnipotenza si infrange sulla difficoltà e la frustrazione, possono nascere mostri. Non è la prima volta che tale età critica è rappresentata attraverso il superpotere (si pensi alla Carrie di King/DePalma): è il senso della possibilità, di un vita in fieri. Puoi creare, ne hai il potere, o distruggere tutto.
Dall’altro lato, la tematica del supereroe che si distacca dalla staticità della Hollywood dedita alla Marvel, dal superomismo tipicamente americano di Man of Steel o Thor. Purtroppo il cinema americano è quell’Uomod’Acciaio, impacciato nella sua tuta coi mutandoni sopra i pantaloni; qualche voce solitaria si leva, ogni tanto: è il caso di Chronicle. La fantascienza dimostra, ancora, di non essere fine a se stessa, ma di essere metafora libera del nostro mondo interno e invisibile.
Infine, il narcisismo da cui eravamo partiti: all’inizio per Andrew la telecamera è una maniera di ordinare i propri pensieri, poi diventa lo specchio di sé (e per sé), fino a diventare necessità di essere ripreso e guardato (emblematica la scena in cui fa volteggiare intorno a sé uno stormo di telefonini e tablet, tutti intenti a riprenderlo), in un estetica autodistruttiva, che rappresenta bene il rovescio, il rischio insito, della nostra società di facciata. È anche, però, il grido di soccorso di chi non trova altra maniera per farsi notare, per farsi amare. “Guardatemi” sembra dire Andrew , “Ve ne prego”.
La metafora del superpotere ci ricorda come l’adolescenza sia quella malattia da cui poi emergiamo diventando adulti, chi più chi meno. Andrew e Matt ci ricordano che dall’adolescenza non si guarisce mai completamente.
Alessandro Pigoni
Titolo: Chronicle
Regia: Josh Trank
Durata: 89min
Cast: Dane DeHaan, Alex Russell, Michel Jordan.
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