Stromae, un artista costruito (bene)

Stromae, un artista costruito (bene)

Cantava in francese, questo sì. Ma per il resto valeva pochino. Non che Alors on danse fosse un pezzo particolarmente brutto, per carità, ma non era nemmeno bello quel tanto che bastava per far sì che di Stromae si tornasse a sentir parlare in futuro. Oltre all’aver dato ai francofoni un’alternativa a Keny Arkana e a Brel (per i nostalgici), Stromae non sembrava affatto destinato a diventare Stromae. D’ altro canto, esplodere a livello internazionale ai tempi nostri può voler significare due cose: o resti a tale livello, e pure un bel po’ di tempo, oppure ti imbarchi con il paio di milioncini strappati ai discografici e con tutta la solerzia possibile sul sentiero della “bella vita”. E fuori dai palchi, Stromae era stato abbastanza a lungo perché si potesse supporre che sul sentiero non solo ci fosse andato, ma gli fosse anche piaciuto.

Balle. Contrariamente all’aspettativa di tutti quanti ne avessero già sentito parlare, nell’estate del 2013 Stromae torna sulla breccia, e lo fa con quello “stile” (termine che concettualmente detesto, ma una perifrasi mi porterebbe via almeno un paio di pagine e di ore; al momento non ho nessuna delle due) al quale molti si sarebbero abituati nel giro di pochi mesi. Nel video di Papaoutai si vedono per la prima volta quelle coreografie folli che avrebbero raggiunto la consacrazione in Tous le memes, nonché tutti quegli elementi che gli valsero l’ etichetta di artista pazzo e visionario che ancora porta con sé (suo malgrado). Ma era a livello acustico che si era subito capito il genio (parola abusata ma nel caso particolare direi coerente con il soggetto) musicale di Stromae. Ruandese tra i belgi, belga tra i ruandesi, Paul van Haver ebbe, nella sua giovinezza, la fortuna di assorbire i tratti di ognuno dei diametralmente opposti scenari musicali ai quali deve la sua formazione artistica (karma volle che negli stessi anni gli morì il padre). Tale fusione di generi raggiunge il suo apice in alcune tracce del suo secondo album nonché sua consacrazione artistica.

Il disco si apre con Ta fete, che a sentirla isolatamente parrebbe il pezzo necessario per chiudere un album. A sonorità europee in un certo qual modo “trionfali” fa da contraltare un sapiente uso di percussioni d’ispirazione africana; e non si pensi a Youssou n’ dour, che c’ entra poco. Ma è più avati che si apprezza l’estrema varietà di generi che Stromae riesce a collocare armonicamente nel suo disco. Moules frites, pezzo sul sesso non protetto il cui titolo è però un piatto francese a base di cozze e la ricerca del senso di ciò mi sta togliendo il sonno, fonde una simpatica storiella di un tizio che contrae l’AIDS e ci muore con una strumentazione piuttosto allegra, per usare un linguaggio alla portata di tutti (e per celare il mio non saperne usare altri), dalle chiaramente percepibili sfumature del reggae degli anni duemila. Su Ave Cesaria le considerazioni potrebbero non finire mai. E’ un omaggio alla cantante Cesaria Evora, e fin qui tutto chiaro. Ma a voler capire che gli è passato per la testa all’atto della composizione si rischia di diventare scemi. Si percepisce qualche lascito della tradizione africana, prevalentemente da un punto di vista ritmico, ma il pezzo non si può definire appartenente al folk africano. La melodia, difatti, con la musica africana non c’entra nulla.

Il punto è che a Stromae non si possono applicare etichette. E non perché sia il classico (appunto) personaggio del mondo della musica che con presunta spontaneità affianca note alla bell’e meglio per poi rispondere ai pii intenditori che vogliano capirci qualcosa di essere “un artista”. Tutt’ altro. Di spontaneo, la musica di Stromae, come Stromae in generale, non ha assolutamente nulla. Come dichiarato in molteplici interviste, il belga pianifica ogni singola cosa, con un’attenzione quasi maniacale per il dettaglio. Chi pensa che l’artista –il vero artista- riceva nel sonno da strani ed elitari dei tutte le conoscenze necessarie per fare buona musica, fa parte della stessa massa sulla quale il mercato degli artisti presunti prospera da troppo tempo. La musica, il vestiario, le coreografie di Stromae sono studiate nel dettaglio. Il frullato di generi musicali è ragionato e pianificato da tutto il suo immenso staff di musicisti, cui è lasciata molta libertà di trasporre la propria formazione musicale ad ambiti per i quali a primo impatto non servirebbe a nulla. Il suo vestiario è costruito filo per filo da una compagine di geniali stilisti, come del resto è ovvio che sia. Chi pensa che appoggiarsi su un gruppo di persone eccezionalmente competenti sia poco morale, chi pensa che “così non è merito di Stromae” dovrebbe ripensare tutti gli artisti che conosce dalle fondamenta. Ogni artista, ogni singolo artista che abbia mai avuto il dispiacere di vedere un proprio video su MTV e dunque di scodinzolare al ritmo richiesto dai produttori di cui si è reso schiavo, non è che la classica “punta dell’iceberg”, dove la parte sommersa è un dietro le quinte di ampiezza incredibile. Almeno Stromae lo dice.

Riccardo Osti Guerrazzi

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