Storia di un’iniziazione in Val Pellice (TO)
Non sono una tipa da mare. Non lo sono mai stata. Stendermi sulla sabbia bianchissima di una spiaggia tropicale equivale per me alla morte dell’anima e alla mortificazione del corpo (a parte il cocco, forse. Ecco, il cocco è l’unica cosa che adoro). La mia vacanza tipo è una non-stop di movimento giornaliero: musei, monumenti, alberi o rocce, chi si ferma è perduto e chi si muove può abbuffarsi ancora di più a cena.
Qualche esempio? Quest’anno ho fatto circa 800 km a piedi. Due anni fa 2050 in bicicletta. E tre anni fa? Tre anni fa, ho contribuito a costruire un agriturismo in Val Pellice.
Questa settimana è stata senza dubbio la mia personale iniziazione. Contestualizzando: l’associazione che frequentavo mi propose una vacanza/ritiro in Piemonte. Metà giornata sarebbe stata dedicata alla ristrutturazione dell’agriturismo, e l’altra ad attività olistiche di vario genere.
Partii ignara ed entusiasta: Giovane wannabe hippie arriva carica di pantaloni afro, libri e incenso, pronta ad una settimana di yoga e cucina macrobiotica, e si trova davanti un agriturismo agli esordi con una cucina e un unico bagno per venti persone come uniche stanze coperte. Il mio comodo giaciglio per la settimana sarebbe stata una tenda in mezzo al bosco, a circa dieci minuti a piedi (naturalmente non illuminati) dal bagno sopracitato.
All’epoca la mia unica esperienza in tenda risaliva ad un tepee piantato sul tappeto della mia camera, regalo dettato dalla mia passione per i cavalli e una discreta cotta per Kit Willer: nella mia prima notte in campeggio, la ridente Val Pellice decise di omaggiarmi con un vero e proprio diluvio. Fissando le gocce che scorrevano minacciose lungo la tela sopra la mia testa, mi sorpresi a desiderare il soffitto di uno squallido hotel di Rimini. Magari un po’ ammuffito negli angoli, ma comunque solido.
La tanto promessa meditazione si svolgeva nel pomeriggio, e lo yoga la mattina presto. Dalle 9 all’ora di pranzo, ci si guadagnava il seitan faticando. Non so esattamente quando percepii che qualcosa dentro di me era cambiato: dubito che sia successo mentre lottavo contro il sonno per mantenere la posizione dell’albero, in equilibrio sul materassino. Molto più probabilmente avvenne mentre brandivo un decespugliatore per ripulire un sentiero (e facendo fuori parte dell’orto nell’impresa) o affrontavo un cumulo di rami secchi armata di rastrello. Forse la catarsi arrivò insieme all’eritema dovuto alle erbacce, o magari alle punture delle vespe.
Nella settimana successiva, imparai a cucinare ogni genere di piatto macrobiotico, i rudimenti della medicina cinese, la struttura e l’assemblaggio di una yurta, la produzione del formaggio dalle mammelle di una capra alla filante copertura di una pizza cotta in un forno a legna. Imparai che i bambini possono non avere affatto idea di come si scrive un messaggio, preferendo condurre un intero branco di mucche al pascolo in totale autonomia. Viaggiai nel cassone aperto di un pick-up, con i capelli che mi frustavano la faccia e gli occhi che mi lacrimavano. Affrontai la mia paura di saltare cercando di passare da un sasso all’altro in una pozza d’acqua alta fino alla caviglia, e fallii miseramente. Imparai che le vespe di montagna si nascondono sotto terra (quelle stronze) e ti assalgono emergendo dal terreno come mostri di un brutto film trash in seconda serata. Realizzai che i marmocchi non sono così male, soprattutto se dipingono un sasso solo per te, e che lavarti i denti nel bel mezzo del bosco, sputacchiando tra i cespugli, ha un che di liberatorio.
La famosa comfort zone era ormai polverizzata. Non avevo mai affrontato e insieme superato così tanti limiti tutti in una volta: togliti di mezzo Walden, ecco la vera vita nei boschi. Holden si meritava un romanzo di formazione? Io mi sentivo la degna protagonista di un poema epico. Stronzate ovviamente, ma il succo (di mela, autoprodotto e non dolcificato) era il seguente: per la prima volta mi sentivo all’altezza di qualcosa che non fosse strettamente vincolato alla lettura compulsiva di testi letterari.
Grazie, quindi, a quella pazza settimana. Grazie a chi mi aveva ospitato, e grazie al Barbabuc di Angrogna (http://www.barbabuc.org ) che sentirò per sempre un po’ casa mia. Da allora ho sempre preteso almeno un po’ di disagio nelle mie vacanze: dall’airbnb a Madrid, in cui per entrare in casa era richiesto un quotidiano tentativo di scasso, all’imbarcarmi in un viaggio in bicicletta di cinque settimane, io che avevo a malapena tolto le rotelle.
Ma questa è un’altra storia.
Ottavia Mapelli
Foto tratte dalla pagina Facebook di Barbabuc.