Springsteen On Broadway. L’anima è una cosa testarda
Sono tornato a Crema, per Natale. Tre-quattro giorni prima, come sempre, ho preso la mia auto e sono ripartito da Bologna. Era sera e c’era nebbia, me lo ricordo, ma ero contento più per questioni di lavoro che per altro: avevo già una strana sensazione, come se quel ritorno mi appartenesse ormai fino a un certo punto, e ne ho avuta conferma un paio di giorni dopo, quando già m’aveva assalito la voglia di tornarmene indietro – alle mie nuove abitudini, alla mia nuova città, alla mia nuova vita.
Il 25 è stato carino, per carità: la solita (interminabile, adorabile) teoria di zii e zie, cugine e cugini di n-esimo grado, tombola e b-movie, ma già avevo deciso che me ne sarei ripartito entro poco. È una di quelle cose che a trentacinque anni ancora fatico a spiegarmi: per un po’ ritornare dove sei nato è tutto, e poi – a un certo punto, d’improvviso – diventa un peso insostenibile, nonostante sia il posto dove hai ricevuto tutto l’amore del mondo. Un posto in cui sarà bello tornare ogni tanto, per ricordare che gusto e che colori avesse la vita quand’era la prima volta di tutto, anche se ora il centro di ciò che conta sta altrove.
Netflix ci ha fatto davvero dei gran regali, ultimamente: i topoi western rivisti dalla lente spietata e deformante dei fratelli Coen nella Ballata di Buster Scruggs; il racconto strappacuore della Città del Messico del 1970 di Alfonso Cuaròn, Roma. Ma il dono più gradito, per me, è stato poter vedere Springsteen On Broadway, lo spettacolo portato in scena da Bruce Springsteen per 236 serate al Walter Kerr Theatre di New York tra il 2017 e il dicembre scorso.
Uno spettacolo in cui il musicista ha srotolato la propria vita davanti agli spettatori in un fiume di parole (e una quindicina di canzoni), in miracoloso equilibrio fra commedia e dramma, autoironia e autoanalisi, aneddotica e riflessione filosofica sull’esistere e sul potere salvifico della musica. Sera dopo sera, davanti a un migliaio di spettatori, uno dei maggiori performer della storia del rock ha lavorato sapientemente alla rielaborazione, alla decostruzione, talvolta perfino alla demolizione della propria mitologia – in maniera non dissimile da quanto fatto con i languori di Tunnel Of Love dopo i bicipiti e le bandiere fin troppo equivocabili di Born In The USA.
La metà degli anni Cinquanta. Bambini che pregano, corrono, giocano in prati curatissimi di sperduti paeselli della provincia americana – circondati da Dio, direbbe Bruce – mentre il clavicembalo barocco de Les Barricades Mystérieuses di Francois Couperin suona in sottofondo. È una scena brevissima, ma tra le più belle di The Tree Of Life di Terrence Malick, ed è così che m’immagino, da piccolo, quell’uomo che oggi – quasi settantenne – sale sul palco accompagnato solo da una chitarra acustica.
Subito Springsteen prende a raccontare la storia di quella fottuta chitarra, di una passione divorante, di un trucco magico: è un’istantanea di quell’esatto periodo storico, e a un certo punto – è il 1956 – entra in scena Elvis, che interrompe la proiezione del film; Couperin finisce fuori dalla finestra e dalla porta entra il rock’n’roll. Anzi, non si limita a entrare: arriva al frigo e si prende la birra migliore, poggia le scarpe impolverate sul tavolino buono di casa Springsteen e invita il ragazzino a dimenarsi e alzare la voce mentre prova a suonare, stentatamente, la sua nuova sei-corde.
È l’inizio di tutto, la presa di coscienza di istinti e desideri insopprimibili, e infatti Growin’ Up va avanti per dodici minuti tra strofe cantate e quello che, trascritto e senza troppe infiocchettature, sarebbe un racconto breve mozzafiato.
I stood stone-like at midnight, suspended in my masquerade
I combed my hair till it was just right and commanded the night brigade
I was open to pain and crossed by the rain and I walked on a crooked crutch
I strolled all alone through a fallout zone and came out with my soul untouched
I hid in the clouded wrath of the crowd but when they said “Sit down” I stood up
Ooh… growin’ up
La bellezza di una pagina bianca è l’esatta sensazione che si respira nella rievocazione della giovinezza che permea buona parte di questo Springsteen On Broadway. Bruce sfoglia l’album dei ricordi con la saggezza e il disincanto della vecchiaia, lo sguardo sempre benevolo verso un’età dell’oro fatta di migliaia di chilometri solo per suonare un concerto dall’altra parte degli States, lui che mai aveva guidato un’automobile; di un desiderio continuo di fuga, anche se “ora vivo a dieci minuti da dove sono nato”, ma d’altra parte “Born To Come Back non l’avrebbe comprata nessuno”; di una provincia del New Jersey che è il centro del nulla e – anche se stai a un’ora da New York – andare a New York è come dire andare sulla Luna.
E le esecuzioni a mezza bocca di Thunder Road, My Hometown e The Promised Land, pensieri mormorati a denti stretti che solo incidentalmente sembrano trovare un pubblico ad ascoltarli in questa veste, hanno appropriatamente il suono caldo che, se perde in epos, guadagna in credibilità: qui dentro, nel contesto di una preghiera laica di due ore e mezza, non avrebbero alcun senso l’energia squadrata, l’organizzazione da street gang e il chiasso orgiastico e gioioso della E-Street Band.
Last night we all sat around laughing at the things that guitar brought us
And I layed awake thinking ‘bout the other things it’s brought us
Well tonight I’m takin’ requests here in the kitchen
This one’s for you, ma, let me come right out and say it
It’s overdue, but baby, if you’re looking for a sad song, well I ain’t gonna play it
La prima volta ho visto Springsteen On Broadway il 23 dicembre, con Andrea – lo commentavamo su Whatsapp in diretta, che meravigliosa sfiga; la seconda, però, l’ho guardato con mia madre. Ci tenevo a mostrarglielo, un po’ per la sua passione per il Bruce dei grandi classici – quello che proprio spostava le montagne, periodo 1975-1984 – e un po’ perché, quasi sua coetanea, immaginavo che certe scene della vita di provincia della metà del secolo scorso, seppure a un Oceano di distanza, avrebbero toccato in lei corde profonde.
Ed è capitato, soprattutto con i racconti di vita familiare – quelle orde di Springsteen che si riversavano per le strade per messe e matrimoni e funerali non dovevano essere dissimili dai piccoli Gipponi nel paese di Chiamami Col Tuo Nome, giusto un soffio dopo. Ma non era tutto lì, ne sono certo: nel modo in cui Springsteen raccontava lo sguardo positivo, la determinazione e il luccicare della madre (in The Wish, splendida rarità da Tracks) o la depressione del padre – figura che ha gettato più di un’ombra sul Nostro (qui gli dedica lo straziante capolavoro My Father’s House) – c’era qualcosa in cui mia madre ha avuto modo di rivedere se stessa. Forse quella stessa etica operaia, forse il rendersi conto di far parte di una generazione che – a differenza della mia – non ha mai potuto prendersi troppo tempo per guardarsi dentro, impegnata com’era a far quadrare conti e cose.
La stessa partecipazione gliel’ho letta negli occhi quando sul palco è apparsa Patti Scialfa per due pezzi condivisi col marito, tra i più apparentemente mielosi del canone springsteeniano (Tougher Than The Rest e Brilliant Disguise); non tanto, immagino, per il romanticismo e l’intesa fra i due – peraltro toccante, per quanto sobria – quanto piuttosto per l’intensità con cui l’artista raccontava la relazione come uno spartiacque nel proprio modo di stare al mondo, un aprirsi a qualcuno in modo incondizionato (mia madre l’ha vissuta, questa cosa, e non l’ha dimenticata). Oppure quando è stato il momento di ricordare amici scomparsi: come il più grande di tutti, Clarence Clemons, spalla di una vita.
Down in the shadow of the penitentiary
Out by the gas fires of the refinery
I’m ten years burning down the road
Nowhere to run ain’t got nowhere to go
Se non c’è un momento di cedimento, in Springsteen On Broadway, è pur vero che la prima parte è molto più chiacchierona laddove invece la seconda sembra concentrarsi maggiormente sulle canzoni.
E se lo spettacolo è indimenticabile di per sé più che per picchi qualitativi delle singole esecuzioni, ce n’è una che si staglia sopra le altre per arrangiamento e intensità: è Born In The USA, la canzone politica per eccellenza di Bruce che più è stata tirata per la giacchetta dalla destra americana, sebbene il messaggio delle strofe fosse limpido e altrettanto chiaro lo stridere ironico del ritornello – marziale, ma tutt’altro che celebrativo di una nazione capace di mandare al massacro una generazione in Vietnam e poi di dimenticarsi i propri veterani.
L’incontro con Ron Kovic (autore di Nato il 4 Luglio), gli amici persi, l’essere riuscito con altri membri della band a sfuggire all’arruolamento porta a un’unica domanda, raggelante: chi è morto al mio posto? Ed è così che Born In The USA diventa un blues desertico con l’intro suonata con il bottleneck e poi semplicemente declamata senza accompagnamento, rauca e dolorosa. Una campana a morto per il passato prossimo, un monito per il futuro.
Al medesimo filone di affresco sociopolitico sono da ascrivere pure una The Ghost Of Tom Joad calata nel cupo presente trumpiano e l’acclamatissimo ritorno post-undicinove The Rising (sublime, senza l’assordante produzione di Brendan O’Brien). Abbandonata quella gravità, poi, la chiusura è tutta un elevarsi, gospel della terra che diventa preghiera vera e propria nella recita del Padre Nostro poco prima dell’ultimo brano: Dancing in the Dark confluisce in Land Of Hope And Dreams, per finire in gloria con Born To Run.
“E anche noi facciamo il possibile per essere ricordati. Costruiamo la nostra eredità pezzo per pezzo, e magari il mondo intero si ricorderà di noi, o magari un paio di persone, ma di certo fai il possibile per vivere nei ricordi, dopo che te ne sei andato. E quindi continuiamo a leggere quel libro, cantiamo ancora quella canzone, e i figli si ricorderanno dei genitori e dei loro nonni, ognuno ha il suo albero genealogico, Beethoven ha la sua sinfonia, e anche noi la abbiamo.”
Lo ammetto. Ci ho girato intorno sin dall’introduzione, un piccolo trucco magico per riuscire a parlare di questa cosa senza troppa fatica, ma alla fine tocca arrivarci: il tempo è il grande assente di questo scritto e il vero fulcro di Springsteen On Broadway. Su tutto lo spettacolo, il tempo – o la morte al lavoro, per dirlo in un’altra maniera – proietta un’ombra lunghissima: su ogni parola, ogni mossa, ogni risata amara, ogni momento in cui Bruce non riesce a trattenere la commozione.
L’idea che lo show sia un momento di autoterapia è fortissima, come se ogni singola parte fosse stata adeguatamente soppesata per consentirgli di elaborare momenti significativi della propria esistenza – il rapporto con il padre, l’Alzheimer della madre, gli amici che da molto tempo hanno iniziato a morirgli intorno, la depressione, l’idea di non avere più una pagina bianca da scrivere – e di riuscire finalmente a lasciarli andare. Per potersi ammettere che sì, quello che da sempre desidera e spera, è di essere stato un buon compagno di viaggio per chi l’abbia ascoltato e di poter sentire di nuovo l’abbraccio dei propri cari, un’ultima volta. E non ha più alcun dubbio su questo, sul persistere della nostra eredità per quelli che abbiamo toccato: l’anima è una cosa testarda.
(a Francesca)