Amin Nour | “Sono dove più mi sento a casa”
La storia di Amin Nour è una storia di riscatto, di guerra e di pace raggiunta per sé; di spazio conquistato solo con la propria forza. Giorno per giorno. È una storia raccontata con un perfetto accento romano, perché Amin è stato un po’ più fortunato, ma tante cose ha dovuto e voluto rimuoverle. E mentre lo senti parlare desidereresti lo stesso destino per tutte quelle anime aggrappate a uno scoglio a Ventimiglia; sospese tra i rottami di un barcone capovolto, in attesa del soccorso della Guardia Costiera; contese tra le politiche, le polemiche e le statistiche dell’Europa dei numeri; ammassate come animali in una stiva, inseguendo un sogno.
Amin oggi ha 28 anni, vive a Roma e lavora in una mensa per mantenersi. Non ha ancora la cittadinanza italiana: “Sono italiano di testa anche se non vengo riconosciuto. Non è un pezzetto di carta a farti italiano”. Fa l’attore e, quando riesce, fa anche un po’ di regia, con un debole per Spike Lee.
Amin, tu vieni dall’Africa. Ci racconti la tua storia? Da cosa sei scappato?
La mia storia è legata alla guerra civile del 1991 in Somalia. Ero un bambino, ma ho visto decapitare la maggior parte della mia famiglia dai terroristi. Mi sono salvato nascosto sotto il letto. Con mio nonno e un po’ di superstiti ci siamo messi in salvo in Etiopia scappando per più di 500 km. Spesso a piedi. Mio nonno mi ha portato in braccio mentre camminavamo attraverso il deserto. Aveva 80 anni ed era disposto a morire per me. Ha ucciso un leone, ha ucciso dei banditi. In Etiopia, poi, è venuta a prendermi mia madre che si era già trasferita in Italia e lavorava come colf presso una famiglia. Siamo arrivati qui in aereo, in un Paese dove, mi diceva, non c’erano armi. Arrivati in aeroporto, però, scoppiai a piangere: i carabinieri erano armati. Le dicevo: mi hai mentito! Loro capirono e nascosero le armi. Mi sono integrato nella famiglia dove mia mamma già lavorava. Ora posso dire di avere due mamme, un papà e due fratelli biondissimi. Siamo un’unica famiglia.
Dove sei cresciuto?
Sono cresciuto in una scuola interculturale di Roma dove il detto è “l’integrazione bisogna farla non sui bambini ma sui genitori”. Sono arrivato che, ovviamente, non parlavo italiano. Mia madre e la scuola mi hanno permesso di non piangere più rinchiuso in una teca. Sono cresciuto in mezzo agli italiani e ormai parlo romano.
Oggi l’Italia e l’Europa si dividono proprio sulle storie e sull’arrivo di persone come te. C’è chi dice “aiutiamoli a casa loro”…
Ma come fai ad aiutarli a casa loro se lì ci sono troppi interessi per cui il caos serve a controllare la popolazione? Poi, a me, il termine “integrazione” non piace molto. Cosa devi integrare? Il termine giusto è “incontro”. Quando due popoli si incontrano tendono a prendere il meglio l’uno dall’altro. Pensa a quando quelli del sud hanno fatto scoprire l’olio a quelli del nord Italia. Si apporta sempre qualcosa in un incontro. Non so cosa intendono quando dicono che l’immigrazione è la cosa nociva per cui qualcuno viene e rubare qualcosa. Le mie radici sono state rubate. Dell’Africa mi è rimasto il colore. Di cosa vogliamo parlare? Non nego le mie radici. Le mie origini. Dell’immigrazione c’è da prenderne e atto e dover fare un incontro perché consente di scoprire nuovi mercati. L’immigrazione ha ringiovanito un’Italia anziana. I nostri genitori hanno ricoperto ruoli che nessuno faceva più. L’immigrazione apporta qualcosa che manca e che permette una crescita. Gli italiani in America non erano solo mafiosi, sono state brave persone che ora vediamo ovunque. Anche nel cinema. Abbiamo tanto da apprendere e tanto da condividere per iniziare a ragionare come cittadini del mondo e non a metterci dei confini.
A proposito di cinema… Tu vuoi fare l’attore. Anzi, fai già l’attore. E hai recitato in una web serie in uscita proprio in questi giorni. Cos’è WELCOME TO ITALY?
Innanzitutto WELCOME TO ITALY non è una web serie di integrazione ma di incontri. Si sono incontrati più ragazzi di origine diversa all’interno di un centro. Al loro interno subentra un ragazzo di strada italiano mandato dal giudice a fare servizi sociali. La web serie si basa proprio su questi incontri e li passa in rassegna. Si basa sulle difficoltà di ognuno. Sulle personalità. Sugli esseri umani. Su una società che ormai è a strati. Nella serie sono uno dei protagonisti. Tutto è stato girato al centro Baobab di Roma.
[Il centro Baobab di Roma è il luogo alla ribalta delle cronache nazionali in questi giorni per l’affollamento di migranti che ha preso d’assalto la stazione Tiburtina della Capitale, dopo la chiusura delle frontiere settentrionali, ndr].
Avete presentato la web serie proprio al centro Baobab. Che effetto ti ha fatto essere circondato da tutte quelle storie, quei volti?
Mi ha fatto male. Sono sempre dell’idea che siamo “cittadini del mondo”. Che io sono dove più mi sento a casa. Qui si è ritornati all’egoismo anche sulla terra: “questo pezzo di terra è solo mio”.
L’Africa è corrotta come l’occidente, ma di bello ha ancora l’umanità. Uno dei concetti che più amo viene dal Sudafrica: “ubuntu”. Significa: “io sono perché noi siamo”. È il concetto di condivisione.
Come ti vedi da (più) grande?
Vorrei scrivere. Fare film. Mostrare una realtà che non è vista. Mi tengo a galla proprio con l’ambizione.
Fai anche parte di un’associazione con un nome abbastanza provocatorio: “Neri italiani – Black italians”. Cos’è?
Neri italiani è un gruppo di ragazzi che sta cercando di formare la comunità nera in Italia con una propria identità. È qualcosa di più grande del solo “afro italiano”. Questo gruppo è formato da neri e bianchi che cercano di formare una comunità cercando di analizzare tutto ciò che riguarda la società. Vogliamo organizzare una comunità che non faccia ghetto e si apra al resto della società, contribuendo al suo benessere. Ora le comunità sono chiuse in se stesse: quella senegalese, quella etiope, ecc… vorremmo farle comunicare e aprire alla società.
Bellissima intervista!
Grazie mille!