Sex, Drugs & Euripide: Dio di illusioni | Donna Tartt
“Explaining just what I had hoped
the story to say is very difficult.
I suppose, I hoped, by setting a particularly
brutal ancient rite in the present and in my own village
to shock the story’s readers with a graphic dramatization
of the pointless violence and general inhumanity in their own lives”.
Shirley Jackson
Forse una cosa come “il fatale errore”, quell’appariscente, cupa frattura che taglia a metà una vita, può esistere fuori della letteratura? Una volta pensavo di no. Ora sono dell’opinione contraria. E penso che il mio sia questo: un morboso, coinvolgente desiderio verso tutto ciò che affascina.
Qui, in Dio di illusioni, è pieno di gente orribile.
Tutti i personaggi sono terribili, provi subito simpatia per loro. Egocentrismo, elitarismo, snobismo, esoterismo, psicopatologie, vizi (spesso un potpurri di tutto questo) e voci troppo rumorose per i luoghi silenziosi in cui si trovano a passare il tempo.
Questo è sicuramente il romanzo preferito di qualche vostra conoscenza, provate a chiedere un po’ in giro, e poi, ultimamente (sarà forse per il Pulitzer) quando nomini Donna Tartt brillano gli occhi a qualcuno quindi cià, è un mattone di quelli che non puoi proprio portarti nel bagaglio a mano ma ci provi.
Si inizia con la simulazione tragicamente riuscita di un incidente, le 620 lunghe (ma scorrevolissime) pagine che seguono ne sono il tragico fisiologico epilogo.
Fin dal prologo il motto sottinteso è “Bad Things Happen” (Donna, se le premesse sono queste, il mio personale premio GAC quest’anno è tuo di diritto). Si sfogliano quindi velocemente le pagine in attesa di vederle arrivare dall’alto come fossero comete, queste ‘cose cattive che succedono’, durante tutta la lettura.
Ciò che si crea è, inevitabilmente, anche non volendo, un’incontrollabile e pruriginosa lunga tensione dovuta all’anticipazione della tragedia finale appena letta. Un segreto sfuggito di bocca troppo presto. Non possiamo evitare di voler a tutti i costi sapere perché le cose siano andate esattamente in quel modo: anche se l’attesa sembra infinita, prima o poi al lettore i conti tornano sempre. Quel fastidioso, banalotto ma giustificato “so già come va a finire, ma voglio delle spiegazioni”.
Quando tutto si conclude, inutile dire che è davvero orrendo, amaro.
“Al mattino seppellimmo Melanippo; e mentre il sole tramontava, la fanciulla Basilo morì di sua propria mano, perché non poteva sopportare di comporre il fratello sulla pila e di continuare a vivere; e la casa subì un duplice dolore, e tutta Cirene chinò il capo, nel vedere la casa dei fanciulli felici divenire desolata”.
“If you’re not enjoying something, it’s almosts always because you’re are doing it too fast”, parola di Donna Tartt (che, ahinoi, rilascia infatti un romanzo ogni dieci anni).
In questa sua monumentale opera prima, Tartt ripercorre i migliori drammatici anni di college di sei giovani grecisti più o meno ricchi, carini e sicuramente intelligenti e annoiati da far schifo.
Il romanzo è il classico mattone: lungo, ma non è solo lungo, è denso.
Nella lettura si è immersi nel misticismo e nella magia dell’atmosfera da simposio greco rievocata nelle lezioni (di letteratura greca, per l’appunto) che i sei studenti prescelti da un fin troppo selettivo professore frequentano un po’ per passione e un po’ per rimarcare l’essere particolari a tutti i costi.
Protagonista è questo esotico gusto per lo splendore e la decadenza che si scontra con la grigia normalità e con il tentativo di non essere solamente giovani, ricchi, viziati e annoiati, nell’accezione più malinconica e buontempona del termine.
La collocazione temporale è incerta e gli strumenti usati mescolano il presente a una perenne nostalgia plastica, alternando macchine da scrivere e pennini a computer e telefoni a gettoni; Mission Impossible a Toyota Corolla.
Dei giovani dimentichiamo subito i nomi ma non i racconti sulle loro storie familiari più o meno rimaneggiate dalla loro fantasia, piene di incomprensioni e di vuote complessità.
Ma la leggerezza, il vizio, la sconnessione dalla realtà, ricercata in un misto di devozione a un Dioniso che trasforma ogni realtà in gioco e tanto tempo libero, si paga sempre.
Per quanto terribile sia stata la nostra azione, non penso tuttora che alcuno di noi fosse cattivo: si può parlare, semmai, della mia debolezza, della tracotanza di Henry, del troppo greco, ciò che volete.
Una storia, così come le vite dei protagonisti, in bilico tra lo straordinario e una sorta di realismo mistico, tuttavia affatto soprannaturale nelle sue conseguenze.
In una notte febbrile, in cui il culto dell’antica bellezza e perfezione racchiusa nel citato Dioniso e nella più che terrena liberazione degli istinti (spinta grazie all’abuso delle solite sostanze, giusto per accorciare i tempi) sublima nel degrado fisico e spirituale dei protagonisti: ecco che accade l’irreparabile, una rossa goccia di eccesso che fa traboccare il vaso e, nei mesi successivi, tremare come naturale conseguenza i nervi dei protagonisti; ognuno a un ritmo diverso ma tutti sul punto di saltare in un condiviso black out finale.
Assassini annoiati con fette di comodo misticismo spicciolo sopra gli occhi + cospirazioni al profumo d’incenso.
L’esegesi del senso di colpa dirige il racconto nella classica caccia del gatto che gioca col topo ma la divisione dei ruoli non è chiara, vittime e carnefici si amalgamano. Trappole ce n’è per tutti.
La vicenda lo aveva sconvolto, ne ero certo, ma sapevo anche che quel qualcosa nelle operazioni di ricerca non poteva mancare di attrarlo, e che era misteriosamente gratificato dall’aspetto estetico della situazione.
Non un giallo ma una tragedia asfissiante con una nuova e, questa volta inevitabilmente prescelta, vittima sacrificale a portata di mano.
Mentre all’incidente assistiamo inermi, alla macchinazione successiva assistiamo curiosamente disgustati.
Nonostante la mole e i numerevoli dettagli, Tartt ha fortunatamente un’incredibile fretta isterica, come i suoi maldestri protagonisti.
Come in ogni tragedia greca, la catarsi è graduale ma efficace.
Un romanzo di deforme formazione e sicuramente un esordio folgorante, lontano sia dall’asettico Paradiso che dal pagano Olimpo.
È strano: quando la gente viene presa dall’ansia, vuole ascoltare quella vecchia robaccia hippy che non ascolterebbe mai se fosse in sé. La volta che morì il mio gatto dovetti uscire a farmi prestare tutti i dischi di Simon and Garfunkel.
Romanzo infine decadente ed edonistico, che nasconde una scrittura di altissima qualità, ricordando, citandone uno di spessore tra i primi che vengono in mente, il Gatsby di Fitzgerald nelle vicende della principale voce narrante, che più degli altri personaggi pecca del vizio di rielaborazione del proprio passato nel momento del bisogno per accorgersi, ovviamente troppo tardi, di quanto sia commovente la semplice autenticità e quanto sia minuscolo, nella sua ingombranza, ogni uomo che si nasconde dietro il mito.
titolo | Dio di illusioni
autore | Donna Tartt
editore | Rizzoli
anno | 1994
pagine | 622