Guarda altrove | Sei film unici per gli anni Dieci

Guarda altrove | Sei film unici per gli anni Dieci

Una scena di Border, film di Ali Abbasi

Solo una piccola introduzione, questa volta, perché vorrei che a parlare fosse la Settima Arte. Che continua a regalare meraviglie e possibili evoluzioni, nonostante lo spettatore medio ormai tenda ad accontentarsi di tanti Mank. Ma dal cinema bisogna pretendere un nuovo Quarto Potere, non farsi bastare un’operetta di ottimo artigianato che parla del capolavoro di Orson Welles come se si sedesse sulle ceneri di un passato grandioso e dicesse: “questo è il meglio che si può fare oggi”.

E invece no, non è così. Anche nell’ultimo decennio sono usciti film straordinari e trasformativi, vere pietre miliari che in certi casi sono passate sotto il radar del grande pubblico ma che hanno saputo portare altrove l’idea stessa di fare cinema – penso a quello che hanno fatto registi come Pablo Larrain, Olivier Assayas, Paul Thomas Anderson, Asghar Farhadi o Kelly Reichardt – e in certi altri hanno pure incontrato il favore del botteghino – Bong Joon-ho, Damien Chazelle, Jordan Peele e Ari Aster.

Due cose da studiare per avere una big picture valida? La prima è piccola e personale, cento titoli notevoli scelti dal mio migliore amico e riferimento cinefilo Andrea, con cui ho condiviso lunghe giornate di lockdown con visioni a distanza il sabato e la domenica pomeriggio. La seconda è una incredibile selezione di registi contemporanei ad opera del già citato Bong – da notare l’attenzione che il funambolico e transalcolico Premio Oscar coreano riserva al nostro Paese, includendo nell’elenco Alice Rohrwacher e Pietro Marcello.

Questo articolo vuole essere il mio piccolo contributo alla causa di una cultura (anche) cinematografica che non si accontenta del ricordo, della storicizzazione e delle enciclopedie: ci troverete sei film unici e diversissimi fra loro, immersivi ed estatici oppure completamente narrativi, che hanno mostrato al cinema altre intenzioni, altre strade, altri modi. Non tutti allo stesso livello, ma tutti egualmente emozionanti, significativi e perfino frastornanti nel loro approcciare da strade laterali l’immagine, il buio della sala e il grande schermo.

Guardateli, guardate sempre altrove.
Perché l’orizzonte del pensabile è un limite che ci imponiamo da soli.

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Un frame di Dawson City: Frozen Time
Un frame di Dawson City: Frozen Time. Più che simbolico, qui dentro

 


UPSTREAM COLOR (2013)


E allora partiamo dalla nostra domanda portante: è ancora possibile trovare forme nuove, al cinema, per raccontare storie già ben note e ridare linfa a un genere, elettrificandolo e addirittura trascendendolo? A guardare un classico di culto come Upstream Color la risposta sembrerebbe assolutamente positiva.

La seconda fatica di Shane Carruth arriva quasi nove anni dopo il chiacchieratissimo Primer, una cosa cui non ho ancora avuto il coraggio di avvicinarmi ma che da chiunque mi è stata descritta come “un film di fantascienza fatto da ingegneri e che ha senso solo per altri ingegneri” – grazie, ma no grazie. Ed è un’opera di cui il nostro è scrittore, regista, produttore, attore principale e autore della colonna sonora, tanto per dare la cifra di una personalità esplosiva, radicale e pure dolorosamente controversa, se si pensa che da qualche tempo Carruth è oggetto di un’ordinanza restrittiva per reiterate violenze domestiche ai danni dell’ex-compagna Amy Seimetz, che di Upstream Color è l’altra protagonista.

Ma se riuscirete almeno per un’ora e mezza a non pensare a questo orrore, se riuscirete a focalizzarvi anche solo per un piccolo frammento di tempo sulla pura Arte, ne avrete forse la vita cambiata e difficilmente guarderete al mondo nello stesso modo.

Perché sì, la trama potrebbe essere la covata malefica di un body-horror nemmeno tanto raffinato da primo Cronenberg – un parassita viene inoculato in due persone che ancora non si conoscono ma che da lì in avanti condivideranno un destino comune, come un unico corpo scisso e lacerato le cui parti si ritrovino per caso e cerchino di rimettersi insieme alla bell’e meglio. Ma quello che cambia tutto è il modo in cui la storia si snoda, incline a seguire rime e consonanze interne piuttosto che un flusso consequenziale di immagini e suoni, con i personaggi – non solo umani, preciso – avvolti nell’alone ultraterreno di una fotografia degna dell’Emmanuel Lubezki di The Tree Of Life.

Upstream Color è il film che Terrence Malick avrebbe fatto se mai fosse stato interessato alla science fiction e a Philip K. Dick. E se anche rimarrà l’ultima cosa girata da Carruth, da appassionati di cinema non potremo che portarla per sempre nel cuore.

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A SPELL TO WARD OFF THE DARKNESS (2013)


A Spell To Ward Off The Darkness dei due cineasti sperimentali Ben Russell e Ben Rivers è un oggetto alieno, una sorta di saggio di videoarte sull’isolamento dell’animo umano calato in contesti estremi.

Novantasei minuti articolati in tre sezioni, che ruotano attorno al musicista sperimentale Robert Aiki Aubrey Lowe. Nella prima, ambientata in una comune estone, il nostro è figura di seconda schiera in un coro di dialoghi surreali che ragionano sulle possibilità di una vita fuori dai canoni imposti dalla società moderna; la seconda ne segue il pensoso vagabondare per le foreste della Finlandia; la terza è una vertiginosa single-take di un concerto black metal pagano in cui Lowe appare nelle vesti di chitarrista.

Non ci si raccapezza, all’inizio, si fatica proprio a capire cosa si stia guardando.

Le scene di vita hippy, i bagni nudi nelle saune, le chiacchiere stonate sembrano procedere su binari paralleli senza un senso complessivo apparente: lo scambio verbale più lungo del film – non farete fatica a capire quale – è proprio l’unica parte che si potrebbe tranquillamente rimuovere senza danneggiare il risultato finale.

Ma quando il contesto cambia, spostando il focus sulla solitudine del singolo – che prima si muoveva in un consesso sociale e ora rimane solo con se stesso, in mezzo a una natura selvaggia e quieta, mirabilmente ripresa – allora si cade preda di un incantesimo silenzioso e oscuro che fa da preludio al fuoco e alla furia del finale. Una catarsi senza parole, fatta di urla disumane e musica assordante, con la telecamera che si muove da un musicista all’altro e poi sul pubblico, i volti che squarciano il buio in una delle riprese di musica live più belle e realistiche che abbia mai visto – nota di colore: la band e le sue composizioni nascono e muoiono qui, e alla batteria c’è il leggendario Weasel Walter dei Flying Luttenbachers.

Difficile descrivere a parole un’esperienza immersiva come questa. Ma se avete presente l’immaginario e i luoghi in cui nasce il black metal più fosco ed esistenzialista, potreste riuscire a immaginare A Spell To Ward Off The Darkness come una sua versione visuale.

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DAWSON CITY: FROZEN TIME (2016)


Presi come siamo dalla necessità di non rimanere mai indietro su nulla (non sia mai che il mondo si perda il nostro ultimo parere!), se non si fa attenzione c’è il rischio di perdersi perle che non hanno bisogno che di un po’ di pazienza e pochi minuti per rendersi immediatamente indimenticabili. È il caso di Dawson City: Frozen Time di Bill Morrison, presentato a Venezia nel 2016, che non avrei mai recuperato, un paio d’anni fa, non fosse stato per l’appassionata recensione di un’altra amica.

Il documentario narra la storia di Dawson City, cittadina dello Yukon che nel 1898 fu l’epicentro della corsa all’oro – quella cosa di cui chiunque abbia almeno la mia età ha letto nei libri di Storia e nei fumetti di Zio Paperone.

Cosa straordinaria: le immagini che vediamo scorrere sullo schermo, magistralmente montate, sono perlopiù tratte da film d’epoca, parte di un tesoro di 533 pellicole ritrovate nel 1978 sotto la pista di hockey cittadina.
Il perché è presto detto: la Gold Rush del Klondike coincide esattamente con la diffusione del cinema, e a Dawson – estremo Nord del continente – c’erano sale cinematografiche che proiettavano film che arrivavano lì due-tre anni dopo l’uscita; rispedirle indietro era troppo complicato e costoso e allora i film finivano per rimanere lì, ammassati senza cura nei luoghi più impensati. Utilizzando questo found footage insieme a cinegiornali del tempo, il regista ricostruisce praticamente centotrent’anni di storia:

“sono molto orgoglioso del fatto che ogni scena segue logicamente quella precedente e sfocia in quella successiva, anche se stiamo saltando in giro per il mondo o stiamo seguendo molte storie diverse a spasso per il secolo. La cosa straordinaria di una struttura cronologica è che le cose riappaiono organicamente e si possono creare connessioni con le storie precedenti senza la necessità di ribadire il loro rapporto.”

La storia del capitalismo e quella del cinema s’intrecciano, in un documentario d’avanguardia eppure accessibilissimo, che andrebbe visto insieme a Il Petroliere di Paul Thomas Anderson – opera di finzione dal rigore verista. L’accompagnamento musicale di Alex Somers contribuisce a rendere ancora più struggente la visione, mentre sullo schermo scorrono personaggi famosi che per qualche motivo sono passati per le strade di una cittadina che oggi conta 1.300 abitanti ma che a fine Ottocento, in un solo anno, si trasformò da semplice accampamento di coloni a città di oltre 40.000 abitanti – con tutte le conseguenze del caso per il territorio e la popolazione indigena.

Perfettamente incastonato fra le immagini, poi, arriva – inatteso – un estratto de La Febbre dell’Oro di Charlie Chaplin. Un’apparizione che non fa che confermare le parole del regista: “Dawson è sempre stato un luogo situato tra i sogni e la memoria. C’è sempre stato un confine molto labile fra le due cose, come del resto è sempre accaduto nel cinema. Ho cercato di fare un film che si comportasse nello stesso modo.”

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VI PRESENTO TONI ERDMANN (2016)


A volte, il posto e il momento in cui vedi per la prima volta un film possono essere decisivi.

Vi Presento Toni Erdmann l’ho visto d’estate, in un cinema all’aperto a Cremona; la serata e il vento erano elettrici, e durante tutti i 160’ del film di Maren Ade non hanno fatto che contribuire alla magia e all’atmosfera di una pellicola che non esito a definire centrale, per il decennio appena concluso.

Toni Erdmann parla di tutto, praticamente. Un’opera-mondo e una commedia umana che mettono al centro il rapporto fra Winfried, anziano ex insegnante con il vizio dello scherzo e del travestimento (dentiera esagerata e parrucca sono il pezzo forte del repertorio), e la figlia Ines, quarantenne in carriera che sotto ai modi da schiacciasassi nasconde un’ovvia depressione.

Dove sta la novità di un film del genere, che in fondo parte da presupposti consueti?

Semplicemente nel fatto che Maren Ade, per raccontare questo tentativo di riavvicinamento tra due mondi lontanissimi, passa in rassegna luoghi e motivi dell’alienazione della società contemporanea e perfino macrotemi economici dell’Europa dei nostri tempi – basti pensare alla durezza che Ines deve inscenare per poter competere in un settore del tutto maschile, discriminatorio.

Per quasi tre ore, Ade ci accompagna per Bucarest e dintorni nei sempre più strambi tentativi di Winfried di riavvicinarsi alla figlia, con un tono che oscilla tra dramma e commedia grottesca e un quantitativo impressionante di colpi di genio: il costume bulgaro, l’assurdo duetto su Greatest Love Of All di Whitney Houston, un happy ending su un cupcake, il party lavorativo senza vestiti.
Una cornucopia di invenzioni che punta a dire una cosa sola: siamo tutti sulla stessa, grottesca barca e l’unico modo per salvarci è stare vicini. Una tesi che nasce naturalmente dalla sequenza di immagini, laddove invece solitamente film simili finiscono per risultare freddi e pedagogici.

C’era un vento elettrico, dicevo, la prima sera che ho visto Toni Erdmann.

Una serata perfetta per un film perfetto, e vi lascio immaginare lo stupore e la commozione quando – in quel preciso momento, con quella precisa atmosfera intorno – dopo l’ultimo sguardo lontano di Ines, è partita Plainsong dei Cure. Un’altra cosa che non mi sarei mai immaginato, ma d’altra parte darti l’imprevedibile e farlo sembrare naturale è il principale dono di quest’opera indimenticabile.

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BACURAU (2019)


C’è un senso di tragedia imminente che permea Bacurau sin dalle prime inquadrature, come se in ogni istante Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles volessero infondere nel pubblico un senso di scomodità e disagio. C’è una tensione che monta implacabile nelle due ore abbondanti di questa stranger thing e che più di una volta suggerirebbe di distogliere lo sguardo per dedicarsi a qualcosa di più potabile.
Eppure non ci si riesce a staccare da questa ultraviolenza catartica, ogni goccia di sangue versato una sorta di pegno da pagare per la noncuranza con cui ci scrolliamo di dosso le tragedie di quella che – giorno dopo giorno, crisi dopo crisi, scroll dopo scroll – assume le sembianze di una delle linee temporali più oscure della storia.

Difficile dire di cosa parli Bacurau senza rovinare gran parte della sorpresa allo spettatore inconsapevole. Se ne possono giusto citare le premesse: in un villaggio brasiliano in cui si sono appena celebrate le esequie dell’anziana matriarca iniziano a succedersi eventi inspiegabili – il paesello è sparito da Google Maps e non è più rilevato dai GPS.
Non è subito chiaro il punto e non ci si riescono a prefigurare esattamente gli sviluppi che seguiranno, ma è evidente che ogni dettaglio, qui dentro, cospira al peggio – dal politicante da quattro soldi che scarica per strada libri usati e medicinali scaduti da un camion come gentile omaggio a una popolazione ridotta allo stremo al gruppo di americani armati fino ai denti che si preparano a una battuta di caccia. La sola presenza di Udo Kier dovrebbe prepararci al worst case scenario.

ll presente cupo del Brasile di Jair Bolsonaro e il suo legame a doppio filo con un’America ancora trumpiana – che purtroppo continuerà a esistere anche dopo il giuramento di Joe Biden – è il non-detto su cui poggia l’intera metafora di Bacurau, che peraltro non risparmia una critica al vetriolo a certi prodotti pretenziosi e slavati come Westworld, una serie che provava a parlare più o meno degli stessi temi ma senza sporcarsi le mani – usando anzi i robot, così da poter continuare a fingere che una certa cultura della morte non implichi conseguenze su esseri umani in carne e ossa.

Premio della giuria al Festival di Cannes 2019 e migliore opera in lingua straniera ai New York Film Critics Circle Awards, Bacurau è uno di quei film che in un mondo migliore si guadagnerebbero una distribuzione capillare – c’è da dire pure che in un mondo migliore un film simile non somiglierebbe così tanto a uno spaventoso documentario.
Troppo violento, privo di ironia e allucinato per catturare le enormi platee di Parasite, certo, ma la carica politica dinamitarda e la potenza paradigmatica di questa distopia western – meglio: di questa febbricitante ucronìa – non hanno certo meno valore: Bacurau è una locomotiva implacabile, sanguinaria, armata di machete, lanciata a bomba contro l’ingiustizia.

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BORDER (2019)


Parlo sempre delle stesse cose, alla fine, ma ce n’è una di cui parlo più spesso delle altre. Mi sono reso conto col passare del tempo – qualcuno la chiamerà “saggezza no fucks given”, qualcun altro “vecchiaia” – che l’arte che mi interessa di più è quella che faccio fatica a comprendere fino in fondo, quella che mi lascia interdetto a domandarmi cosa stia succedendo dentro di me mentre ne fruisco. Arte che mi mette alla prova, insomma, che mi porta fuori dalla comfort zone del già noto, quasi contenta d’infastidirmi.

Border di Ali Abbasi – per me miglior film del 2019, quasi a mani basse – è ormai un cult che ai tempi, ricordo, mise in difficoltà l’intera sala del Galliera, qui a Bologna. Gente che si dava di gomito e ridacchiava qui e là: ma non già perché si stesse divertendo o trovasse ridicolo il grottesco e l’assurdo rappresentati sullo schermo, ma piuttosto perché non sapeva come processarlo e riderne era un modo come un altro per non uscirne troppo traumatizzata.
Un pazzesco lavoro di make-up sugli attori principali rende subito inquietanti le premesse. Tina lavora come guardia al confine svedese, ed è in grado di riconoscere nelle persone sentimenti come colpa e vergogna solo con l’olfatto. La sua esistenza è solitaria e il suo aspetto sgradevole, e s’incrocia alla perfezione con la fisicità deforme di Vore, fermato alla frontiera con un bagaglio sospetto: è l’innesco per una trama che gestisce storyline parallele tra il poliziesco, l’horror e il fantastico.

Il resto è anche in questo caso complicato da raccontare, se non si vuole anticipare troppo, ma vi basterà sapere che l’incontro porterà alla luce la vera natura di Tina, che da sempre sente la propria fisicità come menomata e inadeguata e invece si scoprirà semplicemente altro dall’umano. Questa presa di coscienza avverrà durante una scena indimenticabile e coraggiosa, un rapporto sessuale scritto e girato in maniera fisica e poetica insieme, in cui basso e alto, schifo e sublime sono una cosa sola. Non sarà l’unico momento di Border dopo cui vi ritroverete perplessi, sudati, con lo stomaco sottosopra e aggrappati alla poltrona, ma di certo ve lo porterete dietro per sempre.

Tratta in prima battuta da un soggetto di John Ajvide Lindqvist – l’autore di Lasciami Entrare, portato al cinema da Tomas Alfredson in uno degli horror più significativi ed emozionali degli anni Zero – la sceneggiatura di Border è stata poi rivista dal regista Ali Abbasi insieme a Isabella Eklöf fino a raggiungere un insospettabile equilibrio che è valso al film il Premio Un Certain Regard a Cannes 2018 e un’ampiezza tematica in grado di analizzare, tra le tante questioni, il rapporto tra uomo e natura così forte nei paesi nordici e le politiche di esclusione e discriminazione sistemica delle minoranze.

In fin dei conti, però, il potere incantatorio di Border – la chiusura più romantico e radicale immaginabile per la nostra selezione – sta tutto nel modo in cui l’accettazione di sé è messa in scena. Come una lacerazione permanente, sì, come uno schianto doloroso; ma pure come l’unica cosa per cui valga la pena vivere.

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