Samuele Bersani | Giudizi Universali
Giudizi Universali è tra le canzoni che hanno fatto da sfondo alla mia adolescenza, di quelle cantate con lo slancio fanatico e un po’ alticcio dei sedici diciassette anni sociali e Fluorescent Adolescent e Jack Frusciante è uscito dal gruppo, ma senza la capacità di capirne davvero il messaggio.
Pur percependone delicatezza e profondità nei momenti di malinconia, i tempi non erano maturi per la consapevolezza di una predisposizione (un richiamo) ai grandi spazi, ai silenzi e al lontano delle autostrade e dei Treni a Vapore di Ivano Fossati.
Giudizi Universali me la fece ascoltare un’amica perché era una canzone che io dovevo per forza ascoltare e in effetti, il “Troppo cerebrale” di Bersani si è depositato nella consistente zona di non interferenza (un personale Iperuranio) insieme a certi libri, ai numeri, agli elementi chimici, al cinema di Virzì e a Transformer.
Giudizi Universali dà voce alla questione irrisolta di tendenza all’astrazione, alla razionalità e alla percezione della libertà come quella di una confortevole, insondabile bolla personale.
“Liberi com’eravamo ieri dai centimetri di libri sotto i piedi per tirare la maniglia della porta e andare fuori”
Samuele Bersani torna a ottobre nei teatri con l’album di successi live “La fortuna che abbiamo”, per questo me lo passano alla radio a tradimento. Oggi i testi e le collaborazioni di Bersani fanno pensare più che mai al precariato, a un post Dalla (Anna e Marco, En e Xanax per concludere la quadratura di un cerchio e un ventennio) e all’amore ambiguo per una provincia denuclearizzata a sei eterni km di curve dalla vita, che fa definitivamente perno a una sospiratissima Bologna che potrebbe Milano, come Roma o Firenze e che scorre lungo le ferrovie, dando voce al desiderio di una realtà più grande, una nebbia indistinta e padana di tendenza al traguardo, all’arrivo, alla posizione.
Una certa voglia ostinata di libertà in quell’aerea nuvola inamovibile e da sempre (e per sempre) sul punto di piovere.
Giudizi Universali è una canzone senza tempo di amore irrisolto, una canzone che esprime i pensieri, i silenzi, la tendenza consolidata e domestica a (lasciarsi) scivolare via, a non pretendere spazio.
Richiama quella nostalgia per ipotetici tempi più spontanei e tutta la vivisezione sentimentalmente scettica del Chimico di De Andrè, così familiare a chi tende a razionalizzare i sentimenti. I libri, i pensieri, la riflessione assumono la connotazione ambigua di rifugio e di ripiegamento su se stessi, in una fuga dalla realtà e dal rischio di un coinvolgimento sentimentale. Un sentimento affrontato con delicatezza che spesso ha spaventato prima ancora di ferire.
Il sogno, la fantasia e il vagheggiare utopico proteggono e isolano certe persone, cullate dagli arpeggi, dal pianoforte e dal bolognese caldo di Bersani.