Rotterdam e la bellezza della ricostruzione
Camminando attorno al quartiere di Delfshaven, Rotterdam, non si può avere nessun dubbio sul fatto di trovarsi in Olanda. Cataste di biciclette appoggiate ad ogni muro, lampione o inferriata non lasciano molto all’immaginazione. Poi ci metti il canale storico con le sue barche squisitamente vintage, le distillerie di birra sparse qua e là e lo sai senza ombra di dubbio, in che Paese ti trovi. In lontananza, oltre le casette dai mattoni scuri, i tetti asimmetrici e le enormi vetrate, c’è addirittura un mulino a vento di quelli stereotipici, quasi caricaturali.
Insomma, Delfshaven è un quartiere olandese, su questo non ci piove. Olandesi sono le sue aringhe, la sua acqua placida e, chiaramente, i suoi ciclisti che con noncuranza ti investono.
Ma Delfshaven è anche l’unico angolo di Rotterdam a non essere stato raso al suolo dai bombardamenti tedeschi nel 1940, quando l’Olanda non ne voleva sapere di capitolare in fretta sotto la pressione dell’invasione nemica.
Il volto del resto della città di tradizionalmente olandese ha molto meno. Certo, ci sono sempre i canali – memoria di una città che con il suo porto ha avuto nel tempo una storia d’amore intramontabile. Ma la forma che Rotterdam si è voluta dare rinascendo dalle proprie ceneri ha un’aria molto diversa da quel che ti aspetteresti dai Paesi Bassi.
Per capire davvero la portata della distruzione subita dal popolo olandese mezzo secolo fa è bene partire dalla statua di un architetto russo, naturalizzato francese. Nella lingua locale si chiama De verwoeste stad, “La città distrutta”. Ma col tempo ha acquisito un altro nome, più adatto, forse, a comunicare davvero la portata di un evento che ha spazzato via in poche ore centinaia di anni di storia e le abitazioni di 80mila persone. Stad zonder hart: “Città senza cuore”. Un essere umano in bronzo, alto più di sei metri. Le braccia rivolte al cielo, sul volto deforme un grido di disperazione e poi un enorme squarcio nel petto, lì dove dovrebbe battere un cuore.
Rotterdam ha dovuto ricostruire da qui. Poteva farlo ricucendo le ferite con un vecchio filo, ricreando sulla base della memoria condivisa, di qualche fotografia e dipinto una città identica a quella di prima, ma necessariamente priva di una vera storia, dietro ogni mattone. Poteva mettere in piedi una crudele riproduzione di ciò che aveva perduto, un memoriale eterno di un’indicibile tragedia.
Invece, ha costruito grattacieli innovativi, edifici asimmetrici e all’avanguardia, nuovi ponti verso un futuro più ottimista. Ed è diventata la città dall’architettura più incredibile dei Paesi Bassi.
Ora, non pensate che io ne sappia qualcosa di architettura. Sarebbe una fake news da cui è impossibile riprendersi. Però mi piace, quando riesco, riempirmi gli occhi di cose belle e bizzarre, e bello e bizzarro credo fosse, a questo punto, il motto di chi, nel dopoguerra, si è messo attorno a un tavolo e ha cercato di capire come ricostruire la città senza cuore.
Il risultato è quello che mi piacerebbe immaginare sarebbe il figlio d’amore di New York e Amsterdam. Ora che ci penso, New York all’inizio si chiamava Nuova Amsterdam, ma qui ci perdiamo in digressioni. Fatto sta che a Rotterdam ci trovi questi grattacieli pazzeschi – ma sono distanti abbastanza l’unico dall’altro, sono posizionati con un’armonia che ti da’ l’impressione di camminare in un centro che ancora non ha espresso al massimo il proprio potenziale, ma che non ha alcuna fretta di sovraffollarsi.
Poi ci sono le cose che sono strane, e basta. Quelle che non ti aspetti. Come un campo di lavanda in fiore in pieno centro, a due passi da una delle poche chiese antiche rimaste intatte e steso ai piedi della Markthall, il mercato coperto inaugurato soltanto nel 2014. Qualcuno l’ha chiamata “la cappella Sistina di Rotterdam”.
Sotto al soffitto arcuato e dipinto di psicadelici fiori, frutta e verdura, si staglia una serie di banchetti e piccoli negozi, un tripudio di assaggini e profumi, l’odore dell’aringa che è tanto tipica di qui ma anche un ragazzo sorridente che ti riempie un sacchetto di liquirizia salata. Il costo: 3 euro e cinquanta per un quantitativo di caramelle che farebbe impallidire ogni bambino goloso alla sagra del paese. È amore.
A pochi metri sta la biblioteca cittadina (con un rooftop su cui fare aperitivo, per non farsi mancare nulla) ma, soprattutto, gli edifici forse più famosi dalla città olandese: le case cubiche di Piet Blom. Wikipedia mi dice che è “un singolare progetto architettonico caratterizzato da vari edifici a forma di cubo rovesciato e realizzato come complesso residenziale”. A quanto pare l’architetto le ha pensate come “un insieme di alberi in un bosco”: sono a forma di cubo rovesciato, quindi, molto inclinate e sorrette da pali. Ma, cosa molto più importante, sono giallo acceso e sono fighissime.
La zona è quella del porto principale della città, sorto attorno all’arteria d’acqua che sfocia direttamente nel mare del Nord e sulla quale si specchiano non soltanto gratttacieli asimmetrici ma anche vecchi magazzini portuali un po’ grunge, talvolta trasformati in bar e coperti di lucine. Il porto resta, nonostante la ricostruzione curiosa della città, un porto – con le sue enormi navi e il suo fascino industriale.
Con la bellezza inusuale di Rotterdam, con il suo coraggio da pioniera dell’architettura e con i suoi edifici tanto strani fai pace osservando un tramonto delicato, roseo scendere sull’imponente ma aggraziato Ponte Erasmus, che ha un po’ la forma della vela di una nave pronta a salpare o di un’arpa. Dietro si staglia la penisola dei grattacieli importanti: fanno capolino Renzo Piano, Francine Houben e Norman Foster. Ma, soprattutto, l’edificio forse più significativo dello skyline della città: il palazzo De Rotterdam, con le sue tre torri collegate alla base che prendono un po’ la direzione che vogliono e formano quasi, a sè, una città verticale in miniatura.
Il calar del sole tinge di rosso le vetrate infinite del grattacielo, e tira un bel venticello estivo sul canale Nieuwe Maas. Ti fermi a immaginare come potesse essere la vecchia Rotterdam, più olandese ma forse meno stupefacente, prima di essere spazzata via. Bevi un altro sorso.