Romania portami via: la finestra che dà a oriente
Oh eccoci qua, bentornati! Era un po’ che non ci si vedeva. Come state?
Quest’estate, avendo già uno squadrone di SALT ad occupare l’Albania, mi sono diretto verso un’altra meta balcanica: la Romania. Otto giorni per fare una capatina in Transilvania e una breve sosta a Bucarest. Data la brevità del viaggio, abbiamo adottato un approccio molto radicale nello scegliere cosa fare/vedere: qualunque attrazione, non importa quanto incensata, veniva evitata se c’era una fila di più di quattro persone davanti all’ingresso. Quindi, se volete un breve vademecum sulla Romania, terra famosa per i suoi castelli, senza che un solo castello sia stato visitato, siete nel posto giusto. Altrimenti, ho letto che la Lonely Planet fa buone guide.
La cosa più importante da dire sulla Transilvania è che la Transilvania e Dracula non c’entrano nulla. È importante dirlo subito perché io sono arrivato lì aspettando di trovarmi sul set di Frankenstein Junior: tutto dirupi scoscesi, lampi, lupo ululà e castello ululì. Invece pare la Baviera.
Tranne forse Sinaia. A Sinaia un po’ di vibes stokeriane si respirano. Siamo arrivati in questo piccolo villaggio tramite treno (efficienti, puntuali ed economici ma lentissimi) passando per una stretta gola circondata da foreste. Una volta in stazione, una tortuosa scala di pietra si arrampica sul fianco della collina e porta al paese che domina la valle sottostante. Sinaia è una rinomatissima destinazione turistica che attrae visitatori, sia in estate che in inverno, da tutta la Romania. Come tale, è un villaggio attrezzato alla recezione dei viaggiatori: alberghi, B&B, ristoranti (sia rumeni che internazionali) e, naturalmente, attrazioni turistiche e cose da vedere.
C’è un famoso castello, ad esempio, che, come tutti i castelli del Paese, subisce l’infausto destino di essere etichettato come “il vero castello di Dracula” (spoiler: non lo è). Poco più in là, invece, un monastero ortodosso viene snobbato dai flussi turistici e mantiene intatto il suo fascino ascetico. Fatevi un favore: andateci, è tutto gratis e la seconda cappella, quella piccola, è una delle cose più emozionanti, più evocative che mi sia capitato di vedere: tra legni, velluti e ori, basta varcare la soglia per essere catapultati in una fiaba siberiana o in un quadro di Klavdy Lebedev.
Per il resto, questo piccolo villaggio sonnacchioso riassume abbastanza perfettamente quella decadenza – che non si capisce se sia dettata dalla povertà o dalla trascuratezza – tipica dei paesi balcanici. Non è raro, ad esempio, vedere una raggiante fioriera di gerani curatissimi poggiata su di una ringhiera rotta da chissà quanto tempo e che nessuno si è mai preso la briga di riparare.
Dopo Sinaia abbiamo proseguito verso Brasov e Sibiu, cittadine che non mi sento di consigliare né di sconsigliare. Sono lì, esistono, hanno una loro storia e delle innegabili bellezze, ma nulla che le faccia spiccare rispetto ad ogni altro posto del mondo (una chiesa o una piazza carina le si trova in qualunque cittadina europea). Detto questo, meglio Sibiu di Brasov: più piccola, più riservata, forse più genuina.
Brasov è una delle città più grandi della Transilvania: anche qui troverete “il vero castello di Dracula” (spoiler: non lo è – anche se pare che Vlad III vi abbia effettivamente vissuto per un certo periodo), un’importante chiesa goticheggiante (sia nell’architettura che nel nome: la Chiesa Nera), e sui monti circostanti è possibile fare diverse escursioni. Una delle grandi attrazioni di Brasov – e in generale della Romania – è una forma di wildlife tourism che, a malincuore, mi sento di sconsigliare: il bear-watching.
Con una delle popolazioni di orsi bruni più numerose d’Europa, l’occasione di organizzare tour fotografici destinata al carismatico plantigrado era troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Purtroppo l’esigenza di soddisfare i turisti spinge le agenzie ad attrarre gli orsi con esche là dove questi possano vederli e fotografarli. Con buona pace degli orsi che, ubriachi di merendine zuccherose, diventano obesi e violenti come un qualunque adolescente americano.
Sibiu invece, più defilata dai grandi flussi turistici, ha mantenuto una sua vivacità sincera che me l’ha fatta risultare subito più simpatica. Per dire, appena arrivati scopriamo che in piazza c’è un torneo tra squadre locali di pallavolo invece di bancarelle di kürtoskalács eccessivamente onerosi (ndr. delle specie di cinnamon rolls srotolati).
Già, che si mangia in Romania? Cambia abbastanza in base a dove si va: in Transilvania le influenze tedesche e ungheresi sono più prepotenti rispetto a Bucarest dove, invece, si sentono già odori orientaleggianti. Mi sembra d’aver capito, comunque, che carne, cipolla e pane (o polenta) siano la base imprescindibile per qualunque pasto. Molto buona la zuppa di fagioli, servita dentro una pagnotta svuotata dalla mollica, e i tocchi di grasso di maiale fritti – accompagnati dall’onnipresente cipolla cruda. Più deludenti i dolci anche se è difficile resistere alla tentazione di provare i papanaşi, strano connubio tra la ciambella e il profiterole.
Per quanto riguarda il bere, specie perché d’estate si raggiungono i 40°C con una certa facilità, particolarmente gettonata è la limonata, qui servita con menta e miele. Anche il vino ha un certo valore anche se, come alcolico, la vera star è un liquore di visciole (vişiniată) parente stretto dello cherry dalmata. Infine, non prendetemi per pazzo, ma l’acqua rumena, venduta in bellissime bottigliette art déco, è veramente buona.
Chiusa la parentesi culinaria, andiamo a Bucarest, la “piccola Parigi”.
Ora, premesso che Bucarest è grande QUATTRO volte Parigi – quindi “piccola” perché? – capirete anche voi che, da persona prevenuta e piena di pregiudizi quale io sono, sentire paragonare la città elegante e raffinata per antonomasia alla capitale di un paese che solo da poco ha iniziato ad uscire dal cono d’ombra della Guerra Fredda era un motivo più che valido per farmi scuotere la testa con aria di compatimento.
E invece sapete cosa? Ricorda davvero Parigi (era pur sempre una delle città più importanti dell’Impero austroungarico in un periodo in cui il modello di riferimento era, nel bene e nel male, la Francia) MA – e in questo “ma” è racchiuso tutto il suo straordinario fascino – come se a Parigi fosse successo qualcosa di estremamente brutto. Questo qualcosa si chiama Ceaușescu.
È incredibile quanto l’impronta lasciata dal dittatore sia onnipresente in ogni monumento, palazzo e scorcio della città. Le piazze ad esempio (anche se, più che piazze, sono gigantesche rotonde), come Piața Unirii, con le sue clamorose fontane, e Piața Constituţiei, circondata da palazzoni squadrati sormontati da assurdi templi neoclassici, sono la cosa più vicina – ancora più dell’osceno Palazzo del Parlamento – a quello che avrebbe dovuto essere la Germania secondo Hitler e Speer.
Perfino il Parco Naturale Văcărești (un ottimo esempio di area protetta urbana) nasce come conseguenza indiretta delle manie di grandezza di Ceaușescu che, per creare un invaso idrico, fece circondare una zona paludosa alla periferia di Bucarest da un terrapieno cementificato e che oggi, abbandonato il progetto ma permasta la diga, offre rifugio a numerose specie di uccelli acquatici.
Gigantismo totalitarista, grandeur mitteleuropeo e senso di abbandono balcanico coesistono qui in un magico equilibrio. È quindi facile trovare, nello stesso palazzo, un piano puntellato da impalcature di legno marcio e un altro decorato da statue futuriste degli anni ‘70. Il tutto, accompagnato da una patisserie baroccheggiante al pian terreno. Ciò è particolarmente evidente nel centro storico (Lipscani), in genere quartiere bomboniera di ogni città che qui sembra essere uscito da uno scenario cyberbunk in salsa balcanica.
Questo quadrilatero delimitato da stradoni a quattro corsie che scoraggiano le persone ad avventurarsi oltre, rigonfio di ristoranti, strip-club, B&B e negozi di souvenir, è certamente più simile a una riserva pedonale per turisti che non a un vero e proprio quartiere. Eppure anche qui, alzando gli occhi o semplicemente girando l’angolo, si trovano sorprese che sembrano essere messe lì a caso. Come il meraviglioso monastero Stavropoleos che, con la sua cancellata di ferro battuto, il portico arabescato e gli alberi di tamarindo, pare uscito direttamente da Costantinopoli.
Quindi cosa conservo della Romania (a parte la bellezza delle bottigliette d’acqua) due mesi dopo esserci stato? Non ho un parere univoco perché, come spesso capita man mano che ci si sposta verso est, la bellezza non è traducibile secondo criteri occidentali. Parliamoci chiaro: una città in cui il 20% dei palazzi pare essere stato vittima di un terremoto, in Italia non sarebbe considerata bella. Eppure qui, in questo crocevia tra Oriente, Occidente e Mediterraneo, dove a volte si respira aria di Siberia ed altre, spesso nel giro di pochi metri, di Sassonia, Tracia e Cappadocia, l’incompatibilità tra bello e brutto già pare sfumare e questo paradosso non è poi così incomprensibile.