Antonia Pozzi è la più grande poetessa italiana. E se mi esprimo con toni tanto militari è solo perché “la più” è il linguaggio che usano i bambini. Ed è solo nella loro magica lingua di piccoli despoti, fatta di assoluti e di primi sogni, che io posso parlare di lei.
Antonia Pozzi, detta “TimiTonia” per l’eccessiva timidezza, ragazza studiosa e di buona famiglia della Milano anni ’30, poetessa le cui poesie furono pubblicate tutte postume, alpinista e appassionata di fotografia, è una dea e una bambina: nobile, oracolare e dura; ingenua, entusiasta e selvaggia. Di Antonia Pozzi mi piace il nome.
«”Tonio”, invece, era qualcosa di straniero, di speciale. Sì, in tutti i sensi c’era qualcosa di speciale in lui, lo volesse o no, e perciò egli era solo ed escluso dal mondo ammodo e normale, sebbene non fosse uno zingaro del carrozzone verde, ma un figlio del console Kröger, della famiglia dei Kröger…» (da Tonio Kröger, Thomas Mann)
Cominciai a conoscere Antonia Pozzi leggendo la sua tesi di laurea su Flaubert, ora pubblicata come tascabile dalla casa editrice Scheiwiller (e primo inaggirabile motivo del mio innamoramento), e poi attraverso il film che la racconta – libro e film suggeritimi dalla nostra Giulia.
“Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino (prodotto, tra gli altri, da Luca Guadagnino) è per me un film perfetto: esteticamente impeccabile, recitato con cura e narrativamente mai sentenzioso, invadente o pedante, ma devoto e delicato proprio come un innamorato gentile. Se siete interessati, potete trovarlo su Raiplay.
Di tutte le poesie di Antonia Pozzi la prima che scovai fu “Ricongiungimento”, arruolata com’era – stretta a bella posta fra Paul-Jean Toulet e Marina Cvetaeva – in una raccolta di poesie d’amore del Novecento, che comprai in un momento che Lorenza non tarderebbe a definire di crisi epiletticoromantica.
“Se io capissi” divenne per me, da quel giorno, l’incipit più bello di tutta la storia della Poesia (“il più”), avendolo io così interpretato: confesso che non posso capire, ma vorrei capire, anche se allo stesso tempo è una fortuna che in questo caso io non capisca e ho paura che in futuro mi capiterà di capire; ma poiché so immaginare perfettamente cosa proverei se capissi, allora voglio anche dire che, pur non potendo capire, già capisco. E quello che non succede, da qualche parte, sta pur sempre accadendo.
La smetto, d’accordo, non lo faccio più.
Se io capissi
quel che vuole dire
– non vederti più –
credo che la mia vita
qui – finirebbe.
Ma per me la terra
è soltanto la zolla che calpesto
e l’altra
che calpesti tu:
il resto
è aria
in cui – zattere sciolte – navighiamo
a incontrarci.
Nel cielo limpido infatti
sorgono a volte piccole nubi,
fili di lana
o piume – distanti –
e chi guarda di lì a pochi istanti
vede una nuvola sola
che si allontana.
(17 settembre 1933)
Avevo dunque in mano Flaubert, un film ben fatto e una poesia d’amore: mi misi allora a leggere Antonia Pozzi con la passione ostinata dei bimbi e della calancola. Ed ella si rivelò una poetessa colta e spontanea insieme; ingenua nei suoi slanci emotivi ma anche profondamente riflessiva, esperta di quelle idee nascoste dietro le vite di tutti (sarà che tendo a vedere Virginia Woolf e Sylvia Plath dappertutto, ma mi piace immaginarle amiche); una scrittrice piena di entusiasmo così come di ombre.
Le sue poesie semplici sono dei rompicapo difficilissimi, disegni tanto armonici quanto ingegneristici: che qualche volta mi aiutano, mi allettano come un cesto di fichi maturi, e qualche volta mi buttano giù.
« Volete darmi la vostra tazza, Tonio? Non è forte. E prendete un’altra sigaretta. Del resto, sapete bene anche voi che vedete le cose come non è affatto necessario che siano viste…»
« Questa è la risposta di Orazio, cara Lisaveta. “Vedere le cose così vuol dire vederle con troppa precisione”, non è vero?»