Rhapsody in Blue

Rhapsody in Blue

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New York, 1924. Gli scroscianti applausi dell’Aeolian Hall per Rhapsody in Blue lasciano spazio ai festeggiamenti: Park Avenue dista solo qualche isolato. Lì un hotel di lusso e un cocktailparty. Al bar, invitati da George Gershwin in persona, tre pianisti jazz di colore, ben noti nella Grande Mela: James Johnson, Willie “The Lion” Smith e Thomas “Fats” Waller.

S1Gershwin siede al pianoforte, improvvisando variazioni sui motivi delle proprie canzoni. Il ritmo caldo e sincopato attira occhi e orecchi degli ospiti. È magnetico. “The Lion” freme già da un po’ ormai, poggia il bicchiere sul bancone, si dirige verso l’amico e lo apostrofa con un violento «Get up of that piano stool and let the real pianists take over, you tomato!»

Gershwin ride, per nulla scosso dall’irruenza e lascia il campo ai tre che, fino a notte fonda, si avvicendano senza sosta. La città non dorme mai.

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Gershwin non prese mai le distanze dal ritmo, come un fuoco che propulsivamente gli infiammava l’anima. Lo percepiamo nell’orecchio attento al coro dei suoni della città, nella scomparsa di ogni pregiudizio nei confronti della nuova realtà urbana, nella contraddittorietà, nella disarticolazione apparente di un assembramento di suoni corrispondente al moltiplicarsi delle azioni. Insomma, nel tentativo di condensare in minute battute in quattro quarti l’inverosimile pienezza di un’intera epoca. La sua parabola: l’età del jazz, che in lui non ebbe mai tramonto, percorrendola dalla gioventù scatenata alla maturità impetuosa.S2

George tentò in ogni modo di fuggire l’emulazione e le definizioni. Convinto che il jazz fosse il risultato dell’unione di almeno cinque o sei generi musicali, spazianti dal ragtime, al blues, agli spiritual, ne difese strenuamente la forma pura, essenziale, originale. Il ritmo, in quel momento, proprio lì, in America, si chiamava jazz e il jazz era musica. Musica come quella di Bach, Wagner, Beethoven. Musica che usava le stesse note dei grandi compositori classici dei secoli precedenti. Quando lo si eseguiva in altre nazioni era detto ”americano”; quando lo si eseguiva in altre nazioni suonava dannatamente falso, distante dall’incessante corsa che lo aveva generato. Il jazz, così energico, rumoroso, impetuoso, vivo. Addirittura volgare. Autentica espressione della pulsione americana degli anni ’20. Mostrava idee, cantava sentimento, smuoveva emozioni.  Certo, in esso meccanismo compositivo ed anima dovevano procedere di pari passo per rendere la musica intramontabile, così come accadeva per il crescere di un grattacielo, allo stesso tempo trionfo della macchina e straordinaria esperienza emotiva, mozzafiato.

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Possiamo vedere il miracolo urbano, espresso nei sincopati inseguimenti di Rhapsody in Blue, nella continua tensione in terza minore, in quell’armonia blues che nasconde la melodia e pare celare un regolare sviluppo, un succedersi di parallelismi.

«Viviamo in un’epoca di staccato, non di legato» dichiarò Gershwin nel 1925, appena chiusa un’incantatrice improvvisazione al pianoforte. E, con queste parole, esprimeva tutta la tensione di un’epoca che abbandonava l’ipoteca della perpetua celebrazione del soggettivo e si lanciava a vivere l’energica esperienza della modernità del Novecento.

 

La versione consigliata di Rhapsody in Blue si trova qui:

titolo | Gershwin/Fazil Say
anno | 1999
artista | Fazil Say
genere | Classica
durata | 56:22
etichetta | Teldec

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