Resilience – una parola inglese difficile da tradurre

Resilience – una parola inglese difficile da tradurre

“1: the capability of a strained body to recover its size and shape after deformation caused especially by compressive stress

2: an ability to recover from or adjust easily to misfortune or change”[1]

Resilience è una parola inglese difficile da tradurre. L’italiano conserva il termine resilienza soltanto nella sua prima, più tecnica, accezione [2] – e se è vero che una lingua è il riflesso della società che la plasma, questa non può che essere una divergenza interessante. Nel primo senso, si potrebbe definire come la capacità di recupero e adattamento a una sventura o cambiamento; un concetto che un Paese come il nostro, vittima di un’ignavia che la malasorte la fa anche accettare, sì, ma passivamente, come in costante attesa di un moderno deus ex machina, fatica a fare proprio – figuriamoci inserirlo nel vocabolario.

Resilience, invece, è proprio quella cosa che viene in mente ascoltando The Rising, il dodicesimo album di Bruce Springsteen. Italiano d’origine, nato e cresciuto in New Jersey, incarna lo spirito americano da ormai quattro decenni. Dopo un silenzio artistico di sette anni, questo disco rappresenta la sua risposta ai tragici eventi dell’11 settembre 2001.  Quello di Springsteen è un grido di dolore e di speranza, ma soprattutto – come il titolo suggerisce – è un’esortazione a rialzarsi e a ricominciare. Le quindici tracce che lo compongono offrono prospettive differenti su di un minimo comun denominatore: il dolore della perdita. I tempi, i soggetti e gli stati d’animo sono differenti, eppure costituiscono tutte possibili angolazioni di questo stesso elemento.

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Lonesome day apre il disco facendone da metronomo, nella misura in cui più che suonare come un requiem concilia sentimenti di cupo cordoglio con un costante inno alla reazione, e quindi alla vita. Regalando uno sguardo agrodolce sulle imperfezioni rintracciabili in qualsiasi relazione, immortalate in un momento in cui possono essere soltanto riconosciute e accettate come umane debolezze, offre l’occasione di riflettere sull’opportunità di cogliere l’attimo e risolvere eventuali conflitti quando è ancora possibile, con la consapevolezza che nonostante tutto, “this too shall pass” (“anche questo passerà”). Anche Into the fire utilizza l’intima prospettiva del nucleo familiare per raccontare un’altra perdita, più esplicitamente legata a queste vicende – quella dei familiari di un vigile del fuoco – rivelandosi un ottimo pretesto per un riconoscimento-ringraziamento nei confronti di chi ha perso la vita nel tentativo di salvare le vittime degli attacchi, e al contempo un ammonimento affinché quel gesto serva a porre in prospettiva la loro scomparsa. Colpisce l’intensità di Countin’ on a miracle, tanto nel ritmo quanto nelle parole, che esordiscono annunciando amaramente che no, per questa “favola così tragica” non c’è “nessun principe che possa rompere l’incantesimo”, “nessun lieto fine”. Eppure, la forza per “contare su un miracolo” si trova ancora, si deve trovare ancora: nella fede in Dio o in una persona, in un ricordo, nel futuro. Empty sky è tra i pezzi più drammatici (insieme a You’re missing) e riesce a trasmettere il senso di paradossale claustrofobia causato dalla visione di un “cielo vuoto” in cui non si stagliano più le twin towers; vuoto come il letto lasciato da chi non vi farà ritorno. Frutto di una sperimentazione che inserisce sonorità arabeggianti in un contesto rock più convenzionale, Worlds apart è probabilmente ispirata da un desiderio di comprensione tra “mondi diversi” che “sono e restano” tali. In The fuse c’è tutta la desolazione di una città colpita sotto la cintura, di cui Springsteen riesce come sempre con pochi dettagli a fornire un’immagine incredibilmente realistica. Il tribunale sta ammainando la bandiera, il traffico intasa le strade, la polvere opprime l’aria e l’unico modo per sentirsi vivi, per qualcuno, è stare con qualcun altro; “la miccia sta bruciando”, il tempo si espande e si comprime contemporaneamente e allora ricorrere ai propri sensi può essere contemporaneamente isolamento dalla realtà circostante e il più puro contatto con essa. Se sul momento questa può essere una reazione d’impulso, ricominciare ad attaccarsi alla vita può essere frutto di un procedimento più lungo ed elaborato, e iniziare nel più banale dei modi, andando a una festa (Mary’s place). Chiedendosi “come si ricomincia con queste cose”, “come si vive col cuore infranto”, perdendosi nella folla. In You’re missing non si trova risposta ad alcuna di queste domande, solo una sensazione di impotenza di fronte al vuoto lasciato da perdite che sembrano cambiare o privare di senso tutto ciò che sullo sfondo è rimasto immutato. È a questo punto, quando tutto sembra più cupo che mai, che arriva The rising: “non vedo nulla di fronte a me, niente dietro”. L’ascesa descritta dovrebbe essere quella dei soccorritori sulle pareti degli edifici colpiti dagli attacchi (una delle immagini che più avrebbe colpito Springsteen quel giorno), e in un misto tra riff e cori quasi gospel, sembra che concentrarsi sul presente possa essere la chiave di (s)volta, quella che permette di accettare la propria realtà e trovare un senso in ciò che apparentemente non ne ha. La celebrazione di un lutto riesce così non soltanto a non essere blasfema, ma a trovare forza nell’identità sociale che esso stesso aiuta a rinsaldare, fornendo l’energia necessaria a una reazione-ripresa. È interessante infine notare come pezzo in chiusura, My city of ruins, fosse stato in realtà composto prima degli attentati e ispirato ad Asbury Park, patria dell’autore. Le preghiere di rinascita indirizzate alla sua cittadina, diventata negli anni desolata e desolante, assumono una valenza completamente nuova nel settembre 2011 quando il pezzo viene eseguito dal vivo per un telethon nazionale organizzato in occasione degli attentati, diventando così indissolubilmente legate alla città di New York e all’America tutta, al grido di “Come on, rise up!”.

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Musicalmente, The rising è un ritorno magistrale per Springsteen – dopo quasi vent’anni nuovamente affiancato dalla storica E Street Band – il cui sound non ne fa rimpiangere gli anni migliori; ma il vero punto di forza dell’album, almeno a livello poetico, è dato dalla sua capacità di astrazione dagli eventi particolari per arrivare a riflessioni universali. Non nelle pretese – ché di cantautori più pop (nel senso stretto del termine) del Boss ne sono rimasti pochi – no, l’universalità che si percepisce in questi pezzi non deriva da alcuna declamazione di verità assolute o soluzioni unanimi; dipende piuttosto dal sentimento di empatia, o almeno di comprensione, che sanno suscitare. Sono canzoni semplici la cui storia si svolge, come in un racconto breve, attorno a pochi particolari, spesso isolati dal contesto in cui sono normalmente calati, e forse proprio per questo permettono a chiunque sia caduto, in qualsiasi dei milioni di modi possibili, di riconoscervisi. E di capire che potrà rialzarsi.

Chiara Marchisotti

 

titolo | The Rising
anno | 2002
artista | Bruce Springsteen
genere | Pop-Rock
durata | 72’50”
etichetta | Columbia

 

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