Red House Painters | Il suono del niente tutto intorno

Red House Painters | Il suono del niente tutto intorno

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La neve e i Red House Painters

out of the box, down colorful hill
out of the box, down colorful hill
winds lifting tired feet, skin sensing challenge ahead
winds lifting tired feet, skin sensing challenge ahead
prayers, prayers for success
prayers, answer, prayers, always die in time

L’anno che volevo morire ne avevo ventidue ed ero piuttosto sicuro che non sarei arrivato a ventitré.

Perché le relazioni con gli altri non funzionavano, l’università non andava, io non riuscivo a gestire il peso delle aspettative – autoimposte, che credete – e il futuro non sembrava decisamente un posto desiderabile. Nulla di grafico o violento, solo un perenne desiderio di svanire in dissolvenza. Chi mi voleva bene ci avrebbe messo il tempo necessario, ma poi quella sparizione l’avrebbe accettata come inevitabile e sarebbe andato avanti; in fondo, avrebbe semplicemente potuto far finta che non fossi mai successo.

Fu così per un bel po’, con le stagioni che cambiavano alla finestra e io che uscivo pochissimo, e in vita mia non ho ricordi più soffocanti di quell’inverno in cui fare altro che non fosse guardare il soffitto della camera e ascoltare musica e passare notti intere a parlare con gli amici su MSN sembrava uno sforzo improponibile.

Poi una mattina di gennaio mi svegliai e trovai tetti e strade e passanti imbiancati, la più grande nevicata che avessi mai visto – come quella dell’ottantacinque, disse mia madre con gli occhi lucidi, l’ultima che aveva visto con mio padre. Stavo provando a studiare per un esame, ma come sempre non ingranavo e non c’era modo che io tirassi fuori – proprio lì, con lei – tutta la mia sofferenza: mi mancavano le parole per dirla, gli strumenti per accettare di sentirmi ammettere ad alta voce l’esistenza di quel dolore. Così, per evitare ogni rischio, portai i miei piedi stanchi a lasciare impronte nella neve.

A dirlo in un periodo come quello attuale immagino non faccia più questo grande effetto, ma in giro non c’era nessuno e Crema mi pareva di non averla mai vista per davvero. Di automobili neanche l’ombra, quel pomeriggio: camminavo in mezzo alla strada con le cuffie e cantando ad alta voce, unico suono rimasto su un pianeta abbandonato in cui pareva di sentire i fiocchi toccare terra. E la voce era limpida, piena, come mai mi capitava in pubblico – spariva sempre, quando si trattava di farla ascoltare fuori dalle pareti di casa.

Ricordo di essermi staccato da me, di essermi guardato da fuori come si guarda la vita degli altri, di essermi visto di spalle che mi allontanavo e mi facevo man mano più piccolo, immaginandomi finalmente avvolto da quel silenzio; per sempre, come desideravo.

Tra il nulla dentro e quello fuori, solo uno strato sottile di pelle.
Come una canzone dei Red House Painters.

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the attention I need is much more serious
a kind of weight you couldn’t lift
even if your cheap career depended on it
I need someone much more mysterious
to be my, to be my miss
to be my mistress

I primi lavori dei Red House Painters di Mark Kozelek sono la definizione stessa di quel quasi-genere chiamato slowcore.

Un suono che radicalizzava le tempeste di neve – rieccole! – dei Galaxie 500, le preghiere country-folk dei Cowboy Junkies, gli sprofondi di malinconia e depressione degli American Music Club. Un suono fatto di note lentissime e voci sospese nel buio, illuminate solo da una luce fioca di candele.
Se volete qualche titolo per cominciare, allora vi toccano certamente Frigid Stars dei Codeine o I Could Live In Hope dei Low; ma niente potrà mai eguagliare l’emozione che proverete la prima volta che il vostro orecchio si poserà su Down Colorful Hill, Medicine Bottle, Strawberry Hill, Katy Song e altre straordinarie canzoni del catalogo di Kozelek.

Nessuno come lui è stato capace di trasformare in poesia limpida e melodie indimenticabili l’isolamento, la stasi e la mancanza – di persone, di luoghi, di istanti – in un momento storico, gli anni dell’esplosione dell’alternative rock, in cui il teenage angst iniziava a entrare nelle classifiche di vendita. E non riesco a immaginare per me brani più adatti di quelli dei Red House Painters per raccontare la fatica di essere un ventenne che non riesce a esistere.

Non è un caso che Gregg Araki ne abbia inseriti diversi nella colonna sonora del bellissimo Totally Fucked Up, vero pilastro del cinema indipendente americano che raccontava in diretta il tormento di sei ragazzi omosessuali nella Los Angeles tossica dei primi Novanta.

Giusto, sì: provate a partire da lì, dalla versione piano solo di Mistress, una delle vette assolute dell’arte dei Red House Painters.

Dell’originale – un rock chitarristico tumultuoso, luminoso, immediato – non resta quasi nulla, giusto la linea vocale; la velocità è più che dimezzata e ci sono solo un pianoforte e una voce riverberata a rendere ancora più raggelanti le liriche. È uno sfogo, Mistress, un’autopsia di un amore finito, un elenco di tutto quello che l’altro non sa darti; ma allo stesso tempo – e forse addirittura all’insaputa dell’autore – è anche una descrizione fedele di un vuoto troppo grande per poter essere colmato da una relazione: il cantato amaro e rassegnato di Kozelek echeggia in un deserto emotivo a lui stesso inaccessibile.

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oldness comes with a smile
to every love given child
oldness comes to rile
the youth who dreams suicide

Emergono dal buio, le rare note di chitarra di 24, primo brano del primo album dei Red House Painters. Il basso e la batteria pennellano un’atmosfera cupa e piovosa, da tragedia appena avvenuta; cucita su misura sul timbro ansioso del vocalist: i suoi respiri hanno lo stesso volume, la stessa importanza e perfino lo stesso senso delle parole.

Un brano che nasce mentre lo ascoltiamo, attoniti: è pur sempre una rappresentazione, ne siamo consapevoli, ma scorre così tanta vita agra in quei solchi che è difficile pensare che chi la canta abbia avuto un dopo da raccontare. Me la immagino identica, la reazione di Ivo Watts-Russell, fondatore della 4AD che si trova per le mani un demo tape da centoventi minuti in cui tutto è già come deve essere, una rarità per la band di un ventiquattrenne all’esordio. E infatti Down Colorful Hill esce così com’è, giusto qualche piccolo aggiustamento nel mix.

Sono sei brani soltanto, ma non c’è nulla che si potrebbe aggiungere o togliere alla scaletta senza inficiare il risultato finale: non c’è niente che sia meno che perfetto. Non quel basso dark rubato ai Cure di Disintegration, non le ragnatele degli arpeggi, non l’eco del canto: su tutto, testi tra i più cupi che la storia del pop-rock ricordi, che fanno di Kozelek l’erede di poeti della sofferenza come Leonard Cohen, Nick Drake, Tim Buckley – gente che lui peraltro non ascoltava.

Sono epiche che banali strutture strofa-ritornello-strofa non potrebbero contenere: Medicine Bottle – storia di cuori spezzati e cieli bassi, dall’umore suicida – segue la struttura narrativa del testo e si srotola per nove minuti, un’implosione via l’altra. Ma non meno incanto si nasconde nei brani brevi: Lord Kill The Pain è un saltellante folk-rock smiths-iano, parole intrise di umorismo nero (“Lord let it rain / don’t want to ask you again / drown my country / drown everyone but me / so I can live peacefully”); Japanese To English è di contro un altro sogno spezzato, questa volta perso nell’impossibilità di una traduzione del proprio vero sé in una lingua differente (“it’s not that simple / this dictionary never has a word / for the way I’m feeling”).

Quel che avanza sono le due vette dell’album. La title-track comincia come una marcetta, l’accordatura aperta delle chitarre un venticello tiepido e lieve che accompagna il narratore giù per la Nob Hill di San Francisco in un vorticare di sentimenti che oscillano tra la speranza e l’inevitabilità della sconfitta.
Proprio in chiusura, invece, c’è Michael, dedica a un amico perduto nei gironi della delinquenza, gli stessi in cui aveva rischiato di finire Kozelek, uno che a quattordici anni stava già in rehab. Ed è tutto un dolce sfogliare Polaroid ingiallite di una giovinezza passata in spiaggia a torso nudo, tra tagli di capelli da metallari, sballi ravvicinati del terzo tipo e ridicoli piercing al naso, mentre le corde delle acustiche respirano il sale del Pacifico.

“Il mio migliore amico”, canta Mark a un passo dalle lacrime.
Non avrebbe senso dire altro, e infatti Down Colorful Hill finisce così.

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he’s not like the other boys around here
he says nothing and sits in his
room and he’s afraid to
and he’s afraid to drive a car
so sad he is

Passano solo otto mesi e i Red House Painters sono già di ritorno. Non con una semplice replica di quanto già ascoltato, ma con un mastodonte di un’ora e un quarto omonimo che i fan chiameranno Rollercoaster per via della malinconica foto di copertina, dritta da Coney Island.

Le canzoni arrivano ancora da quell’incredibile nastro, ma qui sfoggiano gli abiti della festa: tutto è infinitamente più lavorato rispetto a Down Colorful Hill e abbaglia in ogni singola parte – dal songwriting di Kozelek alle chitarre di Gorden Mack e giù fino alle ritmiche di Anthony Koutsos e Jerry Vessel, pura ricerca dell’immobile. Il talento compositivo è all’apice e – cosa ancora più sorprendente – rimane costante per tutta la durata del lavoro: a recuperare gli annali non mancano degni avversari per la palma di miglior disco del 1993, ma di sicuro Rollercoaster può vantare una qualità spaventosa dall’alba autunnale folk-pop di Grace Cathedral Park alla miniatura Brown Eyes.

In mezzo, però, succede di tutto.

Se della doppia versione di Mistress si è detto, gli otto minuti di Katy Song sono una piuma, un’anima fragile persa nella paura di perdere la persona amata – e il testo, diomio, il testo: “glass on the pavement under my shoe / without you is all my life amounts to”. È il blueprint per altre due maratone soniche come Mother e Funhouse, squassate da distorsioni che alzano la manopola del volume fino a farsi quasi tradizionalmente rock – passione di cui Kozelek non ha mai fatto mistero, e infatti nella sua seconda vita lo rivedremo nel cast di Almost Famous.
All’altro capo dello spettro stanno i pezzi più classici e concisi, in cui si manifestano le influenze folk che diventeranno preponderanti da Ocean Beach in avanti. È un’innodia ariosa e malinconica da sogno californiano sixties, New Jersey, laddove invece Things Mean A Lot sublima in un verso terrificante, che mi toglie il sonno da quando l’ho sentito, la sconcertante banalità dell’esistere: “things mean a lot at the time / don’t mean nothing later”.

Fenomenale tutto, fin nel minimo dettaglio. Come il modo in cui Kozelek intona l’attacco di Rollercoaster (“that’s my favourite rollercoaster / next to the blue water”) e mette insieme due cose che sembrano stonare – la giostra, le acque profonde – fino a quando non accetti che dietro ogni angolo si nasconde il tema portante di questi brani: la possibilità di una fine.

Eppure c’è spazio per una catarsi, una liberazione elettrica, ed è giusto che stia proprio alla fine della scaletta. Se lo scenario dipinto in Strawberry Hill è quello di un ambiente familiare opprimente, in cui senti i tuoi genitori ubriacarsi nella stanza a fianco mentre parlano di quanto tu sia inadatto alla vita (“it’s our duty as we’re respected / it’s our duty as Californians / to show a new life”), per una volta il narratore non si limita a descrivere il circostante, a prenderne atto: urla, invece; strappa, strepita levandosi sopra le elettriche che galleggiano a mezz’aria, quasi a dire “non vedete il male che mi fate? Io sono così”.

È ancora il film di Araki a tornarmi in mente, con il suo personaggio più forte incapace di dar voce ai propri bisogni. A un certo punto se ne esce con una maglietta con la scritta a caratteri cubitali “I BLAME SOCIETY”: Strawberry Hill è quella scritta, finalmente letta ad alta voce. Non una soluzione, ma ogni tanto aiuta.

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Era tanto che non riascoltavo questi dischi, anche se ne ricordavo ogni minuzia. Quello che è venuto dopo, nell’allucinante parabola artistica di Kozelek, è stato a volte altrettanto favoloso, altre ottimo e altre ancora solamente fastidioso – sulla persona stendo un velo perché non è questo il punto; in ogni caso, non ha quasi più saputo connettersi in modo tanto assoluto alla mia vita mentre questa succedeva – o, più spesso, non succedeva.

Mentre stavo a Crema per il Natale, però, c’è stata una nevicata pazzesca, tanta neve quanta non ne vedevo da quel giorno di quindici anni fa in cui pensavo che avrei pure potuto finirla lì, senza tanti drammi.
All’ora di pranzo – prima che arrivasse la pioggia a portarsi via tutto – non ho resistito: ho infilato gli scarponi e sono uscito a camminare, cercando i punti più profondi in cui affondare, come se avessi bisogno della fatica per godermi davvero tutta quella bellezza. Non stavo ascoltando i Red House Painters, no, ma a un certo punto mi sono messo a cantare e ancora una volta cantavo proprio quelle canzoni, come se cantarle servisse a esorcizzare il ricordo della paura più grande che abbia mai avuto, quella di non voler più essere. E mi sentivo felice, camminando, ma non esattamente come avrei voluto; e diverso da allora, ma non esattamente quanto avrei voluto.

Allora ho mandato un vocale a un’amica per raccontarle la storia di quella giornata, per dirle – senza che lei me l’avesse chiesto, naturalmente, e come avrebbe potuto? – che quel periodo non esiste più, io non sono più quella persona, ne sono fuori, stai tranquilla, non ti preoccupare per me. Mi sono reso conto solo dopo che stavo mentendo a me stesso oltre che a lei, o piuttosto stavo rispondendo a un bisogno di vicinanza in reazione al terrore che ancora quel ricordo di solitudine eterna genera quasi istantaneamente in me; mi sono reso conto che non sono un’altra persona e non lo sarò mai: sono proprio quella stessa persona, con quella stessa ombra.

Poter guardare quell’ombra e non esserne travolto, questo ha significato per me crescere e stare meglio. Trovare, là fuori nella neve, canzoni capaci di somigliare a un’emozione tanto da confondercisi è stato uno strumento formidabile e inatteso per imparare, un poco alla volta, a dare corpo, voce e valore a quel sentire indicibile.

Non so quanti possano dire di aver avuto una fortuna simile.




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