Quando guardi dentro l’abisso: True Detective
Faccio una doverosa premessa: non sono un amante delle serie televisive, mai stato: mi vengono presto a noia e l’attesa settimanale non fa che ridurre ogni mia aspettativa. L’ultima serie che ho guardato per intero – prima delle serie qui in esame, s’intende – è stata Twin Peaks, di David Lynch (da cui nacque tutto, i fanatici di Lost facciano i compiti primi innalzare idoli); non sono riuscito a guardare per intero neppure X-Files, che pur ha segnato la mia infanzia prepubere: credo mi abbiano perso intorno alla settima stagione. Purtroppo trovo che i linguaggi delle serie televisive non mi siano congeniali (ne abbiamo già discusso altrove), anche quando pescano, come negli ultimi anni, a piene mani dal cinema, anche come cast, e sono spesso infarciti di ottime idee. Quindi non aspettatevi un seguito a questa recensione, che rimarrà un unicum irripetibile perché figlio legittimo di una eccezione. E questa eccezione si chiama True Detective.
Ho divorato la prima serie, lo scorso anno, in pochissimo tempo. Innanzitutto perché breve (8 episodi per stagione) ed autoconclusiva. E poi perché cinematograficamente ineccepibile. Ha creato un’atmosfera ed un personaggio (Rust Cohle) semplicemente perfetti, di cui tutti si sono innamorati. In seguito sono stati annunciati gli attori della seconda serie e molti sono rimasti perplessi. Poi la seconda serie è arrivata e con essa fiumi di critiche, tutte già capaci di determinare e comprendere il prodotto per intero, prima della metà, la puntata spartiacque numero quattro. Credo che la ragione che mi abbia portato a scrivere sia proprio da ricercare in queste critiche avventate e parziali, che andremo ad esaminare. Incuriosito e un po’ infastidito da queste critiche, ho aspettato che la serie si concludesse e in poco più di un weekend me la sono spazzolata: è una bomba. Freniamo, però, i sentimentalismi.
La prima serie deve la sua grandissima ed inaspettata fortuna al suo personaggio principale, il detective Rust Cohle, interpretato da Matthew McConaughey, sempre magnifico sia da detective un po’ impettito, che da beone coi baffi a manubrio. Gli fa da spalla Woody Harrelson, nel ruolo di un poliziotto molto più “medio”, controparte di Cohle sia filosofica che morale. Nonostante il pregio di aver riportato in auge un classico come “The Yellow King” di Robert Chambers, la sua immaginifica Carcosa (fonte di ispirazione, pochi anni dopo, per un tale Lovecraft – per dire) e l’ambientazione misteriosa ed esoterica del South, la prima stagione di True Detective ha un grandissimo punto debole, che poi è anche il suo maggior punto di forza: Rust Cohle. Tutta la vicenda è sbilanciata a suo favore, rendendolo vero fulcro dell’azione, col suo nichilismo individualista, le visioni e quell’arguzia geniale che lo contraddistingue.
Risulta chiaro perché i più hanno trovato le prime puntate della seconda stagione non di loro gradimento: perché mancava (un personaggio come) Rust. Il vero problema è la totale irrealtà di un personaggio come Cohle, pur nella sua bellezza (lo dico da grandissimo amante dei suoi monologhi). I protagonisti della seconda stagione sono più bilanciati nelle loro storie e molto più realistici. Tutti e quattro clamorosi perdenti, inetti alla vita, soverchiati da un Fato gestito da poteri forti incontrollabili ed a loro estranei. Corrotti, falliti, con famiglie devastate, alcolizzati, con scheletri nell’armadio, sono personaggi possibili che si spartiscono lo spazio della scena equamente. Ad ogni puntata spunta fuori un pezzo della loro vita, un tassello che li ha resi i naufraghi alla deriva che sono. Ecco la prima differenza fra le due stagioni: i personaggi della prima serie non erano così privi di speranza. Non vivevano brillantemente, ma ci provavano; non navigavano a gonfie vele nella vita, ma nuotavano a vista. Nella seconda stagione, invece, si assiste al naufragio ed all’annegamento dei quattro primi attori, impotenti. Questo potrebbe non piacere al pubblico più ottimista.
Per intrecciare così fittamente storie diametralmente opposte, la sceneggiatura ha fatto le cose in grande. Tutta la tela della seconda stagione viene intessuta con perizia ed attenzione, senza nulla fuori posto, benché tutto rimanga in disordine fino allo scioglimento finale. Anche l’importante specularità dei quattro, viene sapientemente dosata per non farla apparire troppo evidente. Tutti, infatti, hanno un passato familiare torbido; il trauma (infantile, di guerra, familiare) che li ha condotti alla vita odierna, perlopiù solitaria; una causa legale in ballo, di cui due per coercizione sessuale; speranza intravista di una redenzione. Questi tasselli sono presentati come frammentari e vanno ricostruiti a posteriori, in una sceneggiatura dinamica e mai piatta, che dosa momenti statici e momenti frenetici, lasciando poco alle parole e molto ai gesti. Ugualmente, le interpretazioni dei personaggi chiave sono tutte di altissimo livello. Inaspettatamente, Vince Vaughn è capace di offrire grandissimo spessore al ruolo drammatico del piccolo gangster Frank Semyon e Colin Farrel si trova incredibilmente a suo agio nel detective corrotto Ray Velcoro. L’unico non all’altezza del quartetto è Taylor Kitsch, la cui interpretazione si è rivelata piuttosto piatta e poco interessante. Ineccepibili, al contrario, Rachel McAdams e la piacevolissima sorpresa di Kelly Reilly, la bella moglie di Frank. Un cast così variegato e ben assortito –clamorosamente- non fa rimpiangere la coppia McConaughey-Harrelson, senza necessariamente ripercorrerne le dinamiche dicotomiche di incontro-scontro.
L’altra grande differenza fra le due stagioni è l’ambientazione, che passa dal sud degli Stati Uniti, dal Bayou coi suoi misteri, ai dintorni di Los Angeles, fatti di autostrade che si incrociano e ville sfarzose. Se l’intento degli autori della serie è rendere omaggio al noir americano, questo secondo scenario è molto più in linea con l’ideale originario, nonostante il primo rimanga di un fascino ineguagliabile. L’incrocio di strade riprese dalla bella fotografia aerea non possono non ricordare il capolavoro di genere To Live and Die in L.A. di William Friedkin, ma anche le pericolose periferie suburbane di Assault on Precint 13, di un giovanissimo John Carpenter. Da questi due caposaldi possiamo far discendere anche la genia di poliziotti non troppo buoni e di criminali non troppo cattivi, cioè quella sfaccettata umanità che diventa protagonista in True Detective. Ciascuno dei personaggi porta dentro di sé differenti qualità, zone di luce e zone d’ombra, che lo rendono realistico. I veri “cattivi” non sono realmente delineati, ma vengono rappresentati come forze oscure ed esterne, che agiscono attraverso dei tramiti, poco utili sia alla trama che alle vicende dei protagonisti. La lotta avviene sempre contro queste forze ed è, per sua natura, perdente.
Oltre alle differenze più palesi, colpisce la specularità della due serie, che sono state costruite e strutturate per essere riconoscibili e piene richiami l’una all’altra. Fin dalla prima puntata, dove nelle prime inquadrature si vede Velcoro seduto dietro un tavolo proprio come Rusty, ma non è un tavolo di interrogatorio e la finzione ironica dell’autocitazione termina subito, quasi canzonandoci per aver creduto che fosse lo stesso materiale riproposto. Non qui dobbiamo guardare per reperire la medesima paternità ed appartenenza alle due serie. La maggior parte delle somiglianze si trova, infatti, nella struttura della messa in scena. Gli episodi sono distribuiti intorno ad un cardine centrale, una sparatoria che avviene alla fine della quarta puntata, ideale spartiacque, con alcuni episodi “preparatori” (il secondo, che contiene anche la componente “esoterica”, ed il penultimo, in ambo le serie) ed altri di azione. Alla sparatoria della prima stagione, girata con l’espediente splendido quanto gratuito del pianosequenza, fa seguito uno scontro a fuoco serratissimo con ritmi e montaggio indiavolati, che non può non ricordare il ritmo di certe sequenze di To Live and Die in L.A. Ancora una volta, gli autori vogliono esplorare varie sfaccettature del mondo del noir. Altri richiami sono facilmente individuabili nelle inquadrature (nonostante il cambio di regia), soprattutto nelle riprese dentro le auto, con Velcoro che parla in un registratore (qualcuno ha detto Twin Peaks?) esattamente come Cohle parlava a se stesso.
Infine, la migliore trovata della serie rimane l’espansione della filosofia di Cohle. Nella prima stagione il personaggio di Matthew McConaughey era portatore di nichilismo individualista ed autodistruttivo, capace, però, di arrivare da un finale positivo (con la luce che soverchia l’oscurità, sia interiore che esteriore: si ricordi l’ultimo dialogo fra i detective). Nella seconda, nessun personaggio è portatore individuale di tale filosofia, che invece permea tutta la realtà, diventando una sorta di nichilismo esistenziale e soverchiante. Distruttivo, nel senso che stritola le vite dei protagonisti, inchiodandoli ad una spirale a cui è impossibile sfuggire, qualunque cosa si faccia. Questo nichilismo si maschera dietro ai poteri forti e incontrastabili contro i quali i quattro personaggi invano lottano, ma nell’ultima puntata il travestimento cade e diventa palese come queste forze altro non siano che il Fato stesso, avverso e beffardo. La Bocca del Lupo nel quale questa umanità reietta sempre sarà condannata a cadere, non importa quanto si affanni per fare o essere qualcosa di diverso. Viene lasciata fino all’ultimo la speranza di una redenzione che non solo non arriva, ma viene addirittura dileggiata e presa in giro (soprattutto nella vicenda familiare di Velcoro). Come l’assurdo Sisifo porta il suo assurdo fardello, ogni resistenza è inutile; eppure secondo Velcoro e Bezzerides vale la pena lottare, fino in fondo. Fino alla fine già scritta.
Once there was only dark, dice Rust, ma ora…
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