“Sunt lacrimae rerum et mentis mortalia tangunt”
(Eneide, I, 462, Virgilio)
La luce che filtra dalle tende benedice il vasetto del bonsai e il mio pigiama: un uomo si chiude alle spalle il cancelletto arrugginito del cortile, un furgoncino parcheggia. Mentre spalmo il burro sul pane e verso il caffè caldo, una voce femminile in sottofondo scandisce in tv le notizie del giorno e compone un rosario di parole familiari: parole come esseri umani, umanità, giustizia, diritti, dignità.
Possono sembrare luoghi comuni e per me lo sono: ma non nel senso di concetti vuoti o banali, penso piuttosto al loro essere comuni a tutti, patrimonio universale, luoghi che possiamo abitare insieme.
Se però cerco di definirle e spiegarle – queste parole solenni che ci accomunano – mi sento insicura e malferma: in questi anni le ho sentite scandire nei discorsi più disparati dei più disparati politici, intellettuali, giornalisti; mille bocche diverse le hanno impiegate e sfruttate in mille contesti molto diversi fra loro, a volte persino antitetici.
È di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia della riconferma al potere in Polonia dell’ultraconservatore e illiberale Jarosław Kaczyński, che ha vinto le ultime elezioni parlamentari con il suo partito “Diritto e Giustizia”; se scorro la mia bacheca facebook leggo i post di denuncia di Aboubakar Soumahoro contro ogni forma di caporalato e di sfruttamento, conclusi sempre con il perentorio “#primagliesseriumani”; e come non ripensare al discorso di Matteo Salvini che ad agosto in Parlamento rivendicava ferinamente la sua dignità, oppure ai cori disperati dei lavoratori della Whirlpool di Napoli che gridavano “Dignità! Dignità! Dignità!” davanti alla sede del Ministero dello Sviluppo Economico, o ancora alle parole di Marco Cappato che negli stessi giorni chiedeva ai giudici della Corte costituzionale di riconoscere il diritto e la dignità di poter scegliere, in casi di dolore e malattia estremi, come vivere e come morire.
Giustizia, diritto, esseri umani, dignità.
Mi chiedo se non sia solo un’illusione pensare che pronunciamo tutti, oltre che gli stessi suoni, anche gli stessi significati.
Esiste davvero una definizione universale di “esseri umani”? Che cosa ci accomuna tutti? Che cos’è una vita specificamente umana? Quando parliamo di umanità e di dignità, a che cosa ci stiamo appellando?
“Qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano”
Mi ha molto impressionata un piccolo libro che Simone Weil scrisse a Londra nel 1943 – intitolato La persona e il sacro (Adelphi, 2012) – in cui sostenne che, al di là delle disuguaglianze di fatto, tutti gli esseri umani sono assolutamente identici perché costituiti da un’esigenza centrale di bene. E che ciò che ci può spingere al rispetto universale degli uomini è solo la fede.
Ma non la fede definita dall’adesione ad un credo particolare, no. Piuttosto la fede di chi è spinto dall’esigenza di un bene assoluto, riconosce il legame che collega ogni uomo a questa realtà che è fuori dal mondo e perciò considera “ogni essere umano senza eccezioni come qualcosa di sacro a cui è tenuto a testimoniare rispetto”.
“In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell’uomo. Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto”
Mi vengono in mente le parole che Virgilio affida ad Enea quando questi, giunto nei pressi di Cartagine, si trova ad ammirare gli affreschi del tempio di Giunone che raffigurano alcune scene della guerra di Troia, della sua Troia: “Sono lacrime delle cose e le vicende mortali commuovono gli animi” (“Sunt lacrimae rerum et mentis mortalia tangunt”, Eneide, I, 462).
Enea si meraviglia di come le notizie della guerra e delle loro tragiche vicende suscitino lacrime, cioè compassione e commozione, negli altri uomini, in un popolo diverso e lontano: proprio in questa commozione degli uomini per gli uomini – dovuta al solo fatto di condividere l’appartenenza alla specie dei mortali, degli esseri umani – possiamo dire consista ciò che chiamiamo umanità.
Quell’umanità che, in uno dei passi più belli di quel libro straordinario che sono le Lettere a Lucilio, Seneca paragona ad un solo unico corpo, le cui parti sono chiamate a collaborare fra di loro:
“Come dobbiamo comportarci con gli uomini? Quanto poca cosa è non fare il male a colui al quale si dovrebbe fare il bene! Insegneremo a porgere la mano al naufrago, o a indicare la via a chi l’ha smarrita, a dividere il proprio pane con chi ha fame? Perché dovrei dire ciò che va fatto e ciò che va evitato, quando tutti i doveri umani si possono sintetizzare in questa breve formula? Tutto quello che vedi, e in cui si raccoglie ogni essere umano o divino, forma un tutto solo: noi siamo membra di un gran corpo. Siamo partecipi per natura della stessa famiglia, poiché, composti degli stessi elementi, tendiamo allo stesso fine. […] La nostra società è molto simile a una volta di pietre; essa cadrebbe se le pietre non si sostenessero a vicenda, sostenendo così tutta la volta.” (Lettera 95, 51-53)
Questa societas – “la più estesa fra gli uomini, quella di tutti con tutti” dice Cicerone, la comunità alla quale si appartiene per il solo fatto di essere umani – si regge su un principio generale, la condivisione.
Che non significa semplicemente avere qualcosa in comune, spartirsi qualche bene, ma richiede piuttosto un costante impegno reciproco, l’assunzione di reciproci obblighi. Ciò che Seneca chiama humanum officium, ossia il “dovere degli uomini verso altri uomini”. Tale dovere deriva direttamente dalla parentela che la natura ha stabilito fra noi tutti, biografie disperate fatte di terra e di stelle.
Come ben racconta Maurizio Bettini in Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico (Einaudi, 2019), mentre noi oggi ragioniamo in termini di diritti umani – che scaturiscono dall’interno dell’uomo e riguardano l’individuo – gli antichi parlavano invece di doveri umani.
E di doveri umani parla Simone Weil, proponendo l’elaborazione di una Dichiarazione universale degli obblighi verso l’essere umano, alternativa alle Dichiarazioni dei diritti inaugurate nella loro accezione moderna dalla Dichiarazione del 1789.
La nozione di diritto – scrive Weil – è pur sempre legata a quella di spartizione, di scambio, di quantità: si regge soltanto su un tono di rivendicazione. Invece la Giustizia, che prescrive l’eccesso di amore, consiste nel vigilare che non sia fatto del male agli uomini.
E viene fatto del male a qualcuno quando grida interiormente: “Perché mi viene fatto del male?”
E allora quando parliamo di persona umana non facciamo altro che innaffiare un mero concetto astratto, al quale attribuiamo ambiguamente un carattere sacro. Mentre ciò che è sacro realmente è l’individuo nella sua interezza: braccia, occhi, pensieri…e “quel qualcosa che in fondo al cuore di ogni essere umano si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”.
Tutto questo come si rapporta alla vita quotidiana? Quale valore attribuiamo oggi alla vita umana come nozione astratta e alle vite umane concrete?
In un bellissimo saggio pubblicato di recente per Feltrinelli e intitolato Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano, Didier Fassin – antropologo e medico francese – si pone proprio queste domande.
Egli elabora in primo luogo il concetto di “forme di vita”, per dimostrare la tensione esistente fra una comune condizione di umanità e i modi specifici di esistere; fra la vita nella sua dimensione biologica – quindi invariabile e naturale – e la vita nella sua dimensione sociale, variabile e culturale.
Accanto al concetto di forme di vita dispone quello di “etiche della vita” – chiedendosi: cos’è che fa di una vita una buona vita? – per descrivere i due modi diversi in cui gli individui sono trattati dalla società: un primo modo considera la vita come (mera) esistenza fisica; l’altro valorizza piuttosto il contesto sociale e le sue questioni politiche. Nel mondo contemporaneo se da un lato non fa che aumentare il valore accordato alla vita fisica – basti pensare alle questioni di bioetica sollevate dalla medicina moderna -, dall’altro diminuisce parallelamente quello accordato alla vita come fatto politico e sociale.
Walter Benjamin, Giorgio Agamben e Hannah Arendt consideravano il “puro fatto di essere in vita”, la “vita nuda”, una forma inferiore di vita, alla quale gli esseri umani non dovrebbero mai essere ridotti. A questa contrapponevano la “vita qualificata”, ossia il ricco compimento di una esistenza e l’idea di libertà.
L’ultimo dei tre concetti di Fassin è infine quello di “politiche della vita”, e serve a dimostrare come la valorizzazione della vita come concetto astratto – considerata come bene supremo e sacro e in quanto tale uguale per tutti gli uomini – sia smentita dalla valutazione concreta che le vite umane ricevono.
Nelle stesse società cosiddette “democratiche” la sacralizzazione della vita in astratto collide brutalmente con il trattamento delle vite concrete. Il tema centrale è allora, naturalmente, quello della disuguaglianza e dell’iniquità dei rapporti sociali: le vite umane non sono trattate allo stesso modo e queste differenze di trattamento – le disuguaglianze sociali – esprimono le differenze nel giudizio di valore loro accordato. Esprimono una gerarchia morale nella valutazione delle vite umane, per cui alcune sono sfruttate, stigmatizzate, brutalizzate, ignorate, mentre altre sono privilegiate.
“La vita dei “senza” – che siano persone senza permesso di soggiorno, senza domicilio, senza cittadinanza, senza una terra, senza diritti – la possiamo comprendere solamente in relazione alla vita dei “con”, per così dire, ovvero coloro che beneficiano di queste cose generalmente date per scontate, in una relazione mediata dall’insieme delle istituzioni che contribuiscono a legittimare e mantenere tali disuguaglianze. […] Considerare la vita nella prospettiva della disuguaglianza offre allora una nuova intelligibilità del mondo sociale, ma anche nuove possibilità di intervento. Permette infatti di passare dall’espressione di compassione al riconoscimento dell’ingiustizia.”
Marc Augé, in Condividere la condizione umana (Mimesis, 2019), suddivide il genere umano in tre classi: i privilegiati, i consumatori e gli esclusi. Questi ultimi si definiscono agli occhi degli altri sulla base di una privazione, di un’assenza: senza lavoro, senza dimora stabile, senza documento di cittadinanza e di identità – sono i sans papiers.
Ma questo scandalo della disuguaglianza – disuguaglianza nell’accesso ai beni materiali, intellettuali e spirituali – chiama in causa qualcosa presente in ciascuno di noi, che siamo testimoni oppure vittime di ingiustizia: invoca la nostra coscienza di appartenere al genere umano; la nostra identità di membra di un solo corpo; la nostra capacità di commuoverci per le vicende di altri esseri umani; la nostra dignità; quella che Augé chiama l’umanità generica che c’è in ciascuno di noi. “Ogni uomo rappresenta tutto l’uomo” ha scritto Sartre.
L’umanità generica, questa coscienza di un’appartenenza che travalica i confini del singolo – scrive il sociologo francese – può essere il fondamento della “fiducia umanista”, una terza via tra la fiducia minima negli altri che ci fa uscire di casa e salire su un tram, mangiare al ristorante, portare i figli a scuola, da un lato e la fede in cause trascendenti dall’altro: una terza via per rispondere alla brutalità della solitudine e dell’ignoranza.
La fiducia umanista si fonda su due constatazioni: che ciascuno di noi ha bisogno degli altri per costruire la propria identità; e che la scienza degli uomini, le loro conoscenze avanzano e avanzeranno sempre: il progresso della conoscenza umana è incessante.
Questa fiducia, che passa attraverso la curiosità nei confronti degli altri e del mondo (“Homo sum, humani nihil a me alienum puto” – Sono uomo e non c’è cosa umana a cui mi senta estraneo – scriveva Terenzio), è il fondamento di quella che Augé chiama l’utopia dell’educazione per tutti:
“Io penso che sia più facile cambiare il livello intellettuale degli esclusi – e dei consumatori – che il sistema economico globale. Noi possediamo i mezzi tecnici per realizzare una simile ambizione. […] Credere nel genere umano significa riconoscere immediatamente il diritto di tutti e di ciascuno di condividere la somma dei saperi e delle riflessioni che costituisce ciò che si è in diritto di chiamare la cultura umana” .
Se ciò che ci definisce umani sono la curiosità per gli altri e la condivisione della nostra cultura, ossia di tutto il serbatoio sospeso tra il terrestre e il celeste del nostro patrimonio culturale, allora riconoscere la dignità dell’uomo, di ogni uomo, dell’altro e di noi stessi, significa rispondere a questo primo dovere dell’uomo verso l’uomo: fare in modo che ciascuno sia istruito e possa avere accesso all’educazione. Non è utopia, ma Politica.