Pulp Fiction è un enorme dj-set

Pulp Fiction è un enorme dj-set

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Una volta ho letto un libro piccolo e importante. Si chiamava Remix. Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni), l’autore era Lawrence Lessig. Dentro si parlava di cose complicate dell’era digitale, e subito eravamo posti di fronte a un clash interessante tra due culture: read-only e read-write. La prima è un consumo passivo di un prodotto; la seconda è la cultura del remix, quella cultura che mastichiamo e risputiamo in forme del tutto nuove.

Lessig ne parlava in termini di democratizzazione del processo produttivo dell’industria culturale e informativa. Oggi, quando andiamo al cinema e vediamo opere che pescano a piene mani dal presente e dal passato per creare cose semi-quasi-inedite, assistiamo a un processo molto simile. Lessig mi sparerebbe, non fosse un pacifista, ma quando guardate Baby Driver state di fatto guardando quell’idea all’opera: Edgar Wright che frulla e associa riferimenti pescati da un immaginario vastissimo.

A occhio, per me, questo modo di fare arte è contemporaneo alla nascita dell’Internet – quando era fatta dai matti veri, dicono Lo And Behold e Werner Herzog – e trova il suo apice nel più importante film degli ultimi 25 anni. Pulp Fiction, ovviamente.

Avete presente i titoli di testa? C’è il dialogo assurdo tra Zucchino e Coniglietta e poi parte – sparata, volume 11 – Misirlou di Dick Dale; dopo poco arriva Jungle Boogie, mentre i nomi continuano a correre su fondo nero. Come la radio, la colonna sonora passa da un pezzo all’altro, senza soluzione di continuità, e come la colonna sonora è concepito l’intero film. A livello narrativo, Pulp Fiction è un enorme dj-set e per questo motivo anche la sua soundtrack è una pietra miliare.

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Ma c’è di più. In Pulp Fiction si respira un’aria di assoluta libertà creativa, figlia della società americana liberale di metà anni Novanta. Guardando il film si ha l’impressione di un momento irripetibile, un istante in cui a qualcuno capita per caso di poter dire e fare tutto prima che le maglie si stringano. È per questo che le siringhe di adrenalina, le teste che scoppiano o i bombardamenti di F e N-word esaltano e non disturbano: perché la fantasia che brulica è sempre esilarante, uno strepitoso passo biblico storpiato “con furiosissimo sdegno”.

Pulp Fiction esce in un periodo tra i più strani della cultura popolare occidentale, particolarmente in ambito musicale.

L’alternative si sta ancora prendendo le classifiche, è l’onda lunga dei Nirvana.

Tarantino arriva a Cannes nel maggio 1994, poco dopo il suicidio di Cobain e l’indimenticabile MTV Unplugged, in cui la band abbandonava la furia elettrica per dedicarsi a una rivisitazione acustica di brani propri e altrui (Bowie, Meat Puppets, Vaselines). A rivedere il video dell’esibizione, con dei venti-e-qualcosa col maglione liso chini sui propri strumenti a cercare di esprimere in punta di dita rabbia e inadeguatezza, ci si rende conto di un’altra cosa: quanto diavolo fossero poco prodotte le band di allora. Giovani che non stavano troppo bene (diciamo così) catapultati in un pazzesco stardom senza rete, completamente impreparati. Icone improbabili – e anche qui libertà e casualità.

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Nei tre anni che trasformano l’alternative in mainstream escono album pazzeschi, che mettono la musica al centro di scosse socio-culturali. E sono album che, come Pulp Fiction, mettono insieme cose che oggi ci sembrano ovvie, ma che allora erano immediatamente percepibili come novità.

Pensate all’esordio dei Rage Against The Machine (1992), uno dei dischi più violenti e politicizzati che la storia ricordi: rabbia che polverizza le canzoni; rap su un impianto funk/metal; una chitarra scratchata, più che suonata. Pensate al debutto solista di Bjork dello stesso anno – Debut, appunto – in cui l’islandese mette insieme musica da ballo, pop, jazz e una voce inarrivabile. Tutto fuori misura.

L’anno dopo, VS dei Pearl Jam stabilisce il nuovo primato di vendite nella prima settimana (950.000 copie, non c’è un errore negli zeri). Dentro, i ruggiti di Eddie Vedder campeggiano su hard cupi e tirati e il suo vibrato teatrale arricchisce un paio di magistrali ballate alla REM. La flanella al potere, praticamente.

Nello stesso 1993 esce uno dei più grandi esordi rap di sempre. Enter The Wu-Tang (36 Chambers) fa conoscere al mondo quel collettivo di tamarri chiamato Wu-Tang Clan – a loro non lo direi in faccia, ecco – con 70’ di gangsta/hardcore che ha la stessa rabbia di Straight Outta Compton, ma che ancora oggi suona infinitamente più divertente.

Del 1994 e dell’Unplugged si è detto, ma il canto del cigno di Seattle è forse Superunknown dei Soundgarden, filosofi grunge per eccellenza. Anche in questo disco non c’è nulla di regolare: non le ritmiche dispari di Matt Cameron; non le chitarre di Kim Thayil; non il raga e la psichedelia che saltano fuori qui e là. Un disco così, davvero, poteva far successo solo in quel preciso momento. Chris Cornell invece no, poteva far successo in ogni angolo della storia; e a me fa sempre venire i brividi pensare che uno dei suoi più cari amici abbia pubblicato un esordio proprio quell’anno, una cosa che forse qualcuno di voi avrà sentito. Si chiama Grace.

La fine è una cosa che non puoi vedere, mentre accade. A riguardare quel periodo matto di camicie terribili, Pulp Fiction pare un consapevole spartiacque: da qui in poi la cultura pop, più che guardare avanti, guarderà indietro, a un modello irraggiungibile. È come se Tarantino abbia saputo infilare in un solo film un grandangolo sulla cultura occidentale, in cui troviamo un frullato di istanze espressive lontanissime (eccolo, il remix: Buddy Holly e blaxploitation, droghe anni ‘80 e violenza anni ‘90, cinema di Menare orientale e approccio da dj) e un senso di selvaggia libertà che ancora oggi non ha smesso di far sentire la sua eco. La musica intorno, in quegli anni, provava a fare lo stesso.

Malinconia. Titoli di coda. House psichedelica. Exit Planet Dust.

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Francesco Pandini

 

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