Primavera Sound 2019. The New Normal
“La maggior parte della musica rock di oggi – e puoi includerci nel numero di quelle band – avrebbe potuto essere fatta tra il 71 e il 72. Non è andata avanti. Sembra una lingua morta. Non parla del mondo là fuori o della cultura odierna, e forse è perché è un’appropriazione della classe media bianca. Con grime, drill e rap parliamo della working-class nera; c’è un senso di lotta, disperazione, rabbia. La classe sociale ha molto a che fare con quello.
Penso che l’unico modo in cui la musica rock possa fare passi avanti – o meglio: non avanti, ma almeno entrare nel 21esimo secolo – sia con l’arrivo di artiste donne. Forse potremo ascoltare la storia delle donne in un modo che non abbiamo mai sentito prima. Perché abbiamo sentito il maschio bianco, conosciamo la sua storia, è la cultura dominante. Ed è noiosa.”
Bobby Gillespie è una delle figure più carismatiche degli ultimi tre decenni almeno di musica rock alternativa. Voglio dire: rock come attitudine vera, non stile buono per farci le canzonette. Con i suoi Primal Scream si è reso responsabile di alcuni dei migliori esempi di fusione tra musica suonata-con-le-mani e dance – siano citati almeno Screamadelica, Vanishing Point, XTRMNTR – mantenendo però sempre alto il livello dello scontro; ai suoi pezzi, alle volte, non servono nemmeno parole: sono i riff e i suoni che gli stanno intorno a fare da slogan, con una carica sovversiva che il rock ha perso nel corso degli anni. Anche per colpa di un pubblico che in fondo, oggi, vuole giusto le reunion infinite e tristi tipo quella dei Pixies; o magari quella su commissione dei Fugazi, pensando che basti la cifra giusta a comprarli e dimostrando di non averci capito proprio niente.
Queste parole di Gillespie, da un’intervista di un mesetto fa, rappresentano al meglio il nuovo corso di uno dei festival più importanti al mondo, il Primavera Sound di Barcellona: una volta Mecca per gli indie kids di tutto l’orbe terracqueo, oggi terra di contaminazioni soniche dalle tinte sgargianti, dove i confini fra gli stili si fanno sempre più sottili e sempre meno sensati. Era così già da qualche anno, ma l’edizione 2019 è stata quella che ha di fatto messo in campo una specie di manifesto politico e artistico per un mondo migliore, condensato in una lineup: The New Normal, l’hanno chiamato.
La Nuova Normalità è il motto che spiega la scelta di costruire un cartellone equamente diviso fra artisti e artiste, affrontando apertamente il tema delle discriminazioni di genere. Ci sarebbe da discutere a lungo su quanto questo sia solo uno dei tanti angoli da cui si può guardare il problema – ad esempio: c’è parità nel cartellone, nel front-end del Primavera; ma se a deciderlo fossero stati perlopiù uomini? Non lo so, questo, ma so per certo che le cose cambieranno davvero solo quando ci sarà parità anche ai piani alti del business – ma intanto c’è solo da rallegrarsi di un festival che decida di fare finalmente la cosa giusta.
Ci sono andato per il decimo anno consecutivo con il mio migliore amico, Andrea, e qui sotto vi racconto quello che ho visto, tralasciando per amor di decenza solo quella roba informe di Big Red Machine, nuovo progetto di Justin “Vocoder” Vernon e Aaron Dessner dei National che ho avuto la sfortuna di ascoltare per una mezz’oretta alla vigilia della tre-giorni vera e propria.
UNO.
Visualizza questo post su Instagram
Love of our life @erykahbadu at @pullandbear stage #PS19 #PrimaveraSound
È il buio dell’Auditori – una delle migliori venue in cui si possa assistere a un concerto in religioso silenzio – ad accoglierci alle 16 in punto, il primo giorno di Primavera, insieme ai delicati arpeggi d’acustica di Bridget St. John (una splendida violoncellista ad accompagnarla); l’apertura con la cover di Just Like A Woman, virata dalla terza alla prima persona, è una specie di sogno a occhi aperti che anticipa una scaletta che arriva da un’epoca remota.
Julien Baker come sempre stringe il cuore con le sue ballate elettriche: la sala si riempie di giovani, ed è una gran bella cosa, anche se l’impressione è che Julien sia quasi condannata a ripetere sempre lo stesso concerto triste e le sue interpretazioni vocali stiano diventando un po’ troppo simili a quelle delle star dei talent (e d’altra parte l’età è quella: la Baker è del ‘95). Ci pensano i veterani australiani The Necks a rialzare l’asticella dell’ambizione con un unico brano di un’ora tra improvvisazione jazz e minimalismo ripetitivo – impressionante l’interplay fra i musicisti, con il pianista che martella sui tasti figure circolari (quello che nel kraut faceva la ritmica, qui lo fa il pianoforte), mentre batteria e contrabbasso vengono sfruttati con finalità quasi pittoriche. Ostici, frastornanti, imperdibili.
Uscire all’aria aperta alle 19.30 e trovarsi di fronte a una Barcellona ancora luminosa e soffiata da un vento fresco ed elettrico pare quasi una premonizione per la bellezza di quanto verrà. Big Thief travolge con il miglior concerto indie-rock dell’intero festival: la voce dolorante di Adrianne Lenker – un timbro nasale che curiosamente, alle volte, ricorda Brian Molko – alterna dolcezze alla Hope Sandoval a urla belluine, mentre la band l’asseconda in un incastro delicato e rugginoso insieme, con le elettriche che pescano a piene mani dal Neil Young di Everybody Knows This Is Nowhere.
All’eroico Mac DeMarco va il premio per la band più assurda dell’interno Primavera, per un live di ballate rilassatissime che sanno di marijuana lontano un miglio; menzione d’onore per il chitarrista, che ricorda il Matthew McConaughey baffuto e stonato di Dazed And Confused (“alright, alright, alright”). Courtney Barnett, invece, spacca tutto: la chitarra mancina si contorce per un’ora buona in una manciata di pezzi memorabili e una carica pazzesca; e al pogo non si può proprio resistere, quando parte Pedestrian At Best.
Se mezz’ora della leggenda indie Guided By Voices è sufficiente per godersi almeno una quindicina di brani in un clima di festa collettiva – gente che cantava TUTTE le parole di canzoni pescate da una discografia che comprende più di cento album: kudos – l’attenzione fa presto a spostarsi a uno dei main stage per il ritorno della straordinaria Erykah Badu; che per me, da ragazzino, prima che avessi idea della sua enormità, era solo una cosa strana che passò un pomeriggio dal concertone del Primo Maggio di Roma facendo la figura dell’aliena tra una tirata sindacale e una tarantella.
Va per i cinquanta, Erykah, ma la vocalità è ancora ciclopica; la band la segue in tutti i suoi imprevedibili strepiti che sanno di jazz oltre che di r&b e l’ora e mezza di show regala momenti di straripante fisicità. Poi, alla fine, ci fa alzare i palmi delle mani per incanalare energie positive e ad Alina – la mia vicina di concerto russa, occhi azzurri che temo non rivedrò mai più – dico che solo una sacerdotessa come Erykah Badu avrebbe potuto far fare una cosa del genere a un vecchio punk ateo come me.
DUE.
Visualizza questo post su Instagram
Q.U.E.E.N. @janellemonae at @pullandbear stage 📸: @sergioalbert_
Secondo giorno, e di nuovo all’Auditori: c’è Midori Takada, percussionista giapponese che offre una specie di piece teatrale – diversi presenti ne approfittano per sonnecchiare: non io – tra piatti colpiti con bacchette e battenti o percossi con catene (già: catene), vibrafono, gong e tamburi assortiti; una specie di folletto ninja della ritmica. Torniamo alla luce per Snail Mail, che farà vent’anni fra un paio di settimane e ricorda a tutti cos’erano gli anni novanta dell’indie: melodie semplici, chitarre sempre scordate, stonature come stile di vita, un concetto di tempo – diciamo così – personale; ancora più adorabile con quegli occhialoni XXL che le cascano sul naso a ogni saltello, ancora più abbracciabile per quell’attitudine non-professionale così rara oggi (è difficile trovare – anche in contesti meno competitivi del Primavera – un concerto dove una band anche molto giovane suoni male: che è una figata, ma non necessariamente).
C’è poi il pellegrinaggio a uno dei miei luoghi del cuore, il Ray-Ban – gradinate che danno su un grande spiazzo, poi lo stage, poi il mare: una meraviglia da perderci i pomeriggi e ad arrossarcisi il collo al sole. Ed è su quel palco che vedo la tempesta arrivare, una tempesta perfetta di quattro batterie, sassofono e bassotuba: sono i Sons Of Kemet di Shabaka Hutchings, figura chiave della musica dei nostri tempi, che regalano uno dei concerti della vita, jazz afro-caraibico iper-politicizzato che fa ballare a pugno chiuso. In un’epoca di superlativi ed entusiasmi a caso dimenticati cinque minuti dopo, questo live fuori misura fa venire voglia di bruciare il mondo per riprenderselo. Farsi male (molto male) zaino in spalla nel pogo hardcore dei canadesi Fucked Up – anche loro una specie di istituzione, ormai – sembra la naturale conseguenza di questo stato di trance psicofisica in cui ci ha precipitati il sassofonista britannico.
La sera, però, è tutta di un’altra black (queer) queen: Janelle Monae travolge con 75′ di spettacolo puro, tra tormentoni da cantare in coro, un continuo, sensualissimo strusciarsi con il corpo di ballo (say it loud: i’m dirty and i’m proud è uno dei mantra della serata), cambi d’abito e una grandeur che fa pensare al Prince del periodo d’oro; perfino una corsa tra il pubblico, una nuotata in stage diving e parole d’inclusione LGBTQI a suggellare il live di una delle più significative voci pop contemporanee. Chiaro che poi il salto allo slo-core destrutturato dei Low, i miei mormoni preferiti, sia quantico – anche se, a dirla tutta, erano meglio una decina di anni fa; ci pensa Kate Tempest a chiudere la giornata con una selezione di brani dal suo Let Them Eat Chaos e una serie di pezzi più atmosferici che andranno a comporre il nuovo album in arrivo: un set da lacrime agli occhi, Kate che si strugge per superare l’indifferenza di quest’epoca grigia e arrivare alle coscienze addormentate che vede di fronte a sé.
TRE.
C’è sempre della malinconia nell’ultima giornata di Primavera, il sabato sera, perché lo vedi che la festa sta per finire e poi si tornerà alla normalità quando invece tutto quello che vorresti è continuare a svegliarti la mattina e decidere quali concerti ascoltare, e gustarti l’attesa e l’eccitazione di conoscere persone nuove con cui dibattere, parlare, ballare, sognare di cambiare il mondo. Ma a questo ci si penserà dopo, camminando verso l’uscita: intanto ci sono ancora dieci ore di musica ad attenderci.
Ancora le quattro, ancora il buio l’auditorium. C’è l’elettronica pazzesca di Caterina Barbieri, a volumi alti il giusto, per un’esperienza sonica fisica come poche altre che vanta in Fantas un’apertura da brividi); e poi Tirzah, bellissime miniature pop-r&b cantate come aggirandosi sonnambuli per le stanze della propria mente. Fuori, invece, arrivano come un uragano i Built To Spill per il mio concerto-nostalgia di questa edizione: le chitarre di Doug Martsch regalano più di un brivido a noi trenta-quarantenni nella riesecuzione integrale del classico Keep It Like A Secret (a pensarci, che dieci pezzi del genere stiano su un unico album, fa veramente impressione). Martsch non parla mai, non dice quasi nulla, ma la sinistra si muove sul manico della chitarra come fosse fatto d’acqua.
Giù al Pitchfork, vicino al mare, Loyle Carner – paraculissimo nella sua maglia del Liverpool per la finale di Champions’ League – abbandona del tutto le delicatezze degli album e il lato più intimista del suo hip-hop: qui è tutto bombastico e crowd-oriented; ma che flow, che stile, e a soli 24 anni. Ma ancora non basta, e per il finale di festival ci affidiamo a un trittico di vecchie glorie però invecchiate per nulla: Neneh Cherry (quella voce è seta, nei pezzi del recentissimo Broken Politics, e poi però ti travolge con le super-hit 7 Seconds e Buffalo Stance e se ne sbatte dell’orario di chiusura obbligata), Primal Scream (temevo la ciofeca e invece ho avuto un greatest hits in versione rock’n’roll con tifo da stadio, con un Bobby Gillespie – eccolo qui! – nei panni dell’agitatore instancabile: Kowalski è stato uno degli apici del festival, Loaded aveva sempre il solito suono balearico in cui il pubblico è una parte essenziale del pezzo, e perfino le canzonette da due soldi e tre accordi tipo Country Girl sembravano la cosa migliore di sempre), Stereolab (la reunion dell’anno, la più attesa: il kraut-meets-vintage-meets-Gainsbourg tornato in un’esplosione interstellare per salvare l’universo).
TITOLI DI CODA.
La domenica gli amici se ne sono andati e non resta che girare – un po’ affranti, un po’ storditi – per le strade di Barcellona, tanto che alla fine della giornata il mio smartphone segnerà 37.500 passi. In piazza ci sono i concerti free, il pomeriggio: prima un po’ di tamarrissima trap spagnola – una cosa piuttosto deprimente che sa di grigliate sul fiume e sfigatissime radio a transistor – e poi il supergruppo Filthy Friends con Corin Tucker delle Sleater-Kinney e Peter Buck dei REM.
La notte, invece, ci si sposta alla Sala Apolo per il power-pop dei neozelandesi Beths – come dico alla ragazza israeliana che incontro ogni anno in qualche concerto in cui si poga: “dovrebbero mettere queste canzoni in ogni stracazzo di teen movie di Richard Linklater” – e la dolce fine-del-mondo drone di Efrim Manuel Menuck, tra i fondatori dei Godspeed You! Black Emperor. Ed è bello chiudere così, ondeggiando al rallentatore e sincronizzando i propri movimenti a quelli dei vicini, per capire quanto poco ci sentiremmo soli, se solo volessimo tendere la mano.
Trenta ore di musica in quattro giorni: cosa ci siamo persi, in tutto questo delirio? Miley Cirus e gli Suede, FKA Twigs e Nas, Solange e gli Interpol, James Blake e Stephen Malkmus, Apparat e Lizzo, Tame Impala e Jarvis Cocker. Praticamente, almeno un intero altro festival possibile. Ma alla fine, più di tutto, resta la gioia di aver partecipato a un evento che è la semplice rappresentazione del mondo come potrebbe essere – inclusivo e gioioso, colorato e sociale – se solo non preferissimo, per il resto dell’anno, le recinzioni e l’isolamento; e non resta che aspettare allora il 2020, con un nome anticipato in esclusiva che stuzzica già le fantasie di noi freaks and geeks. Questo qui.