We’re not gonna let them win (again). Il nuovo disco di Jeff Rosenstock
La fine di un anno e l’inizio del successivo sono sempre momenti magici per ogni appassionato di musica – o forse mi sbaglio, e lo sono solo per noi catalogatori maniacali. C’è la voglia di tirare le somme degli ultimi dodici mesi, con le immancabili classifiche; c’è l’ansia per le nuove uscite, di affondare i denti in note inaspettate. Per dire: alla cena di capodanno, a un certo punto, mi sono accorto che i King Gizzard & The Lizard Wizard avevano pubblicato il quinto album del 2017; non ho potuto ascoltarlo, quello no, ma le cose intorno sono come sparite. Immaginate la sorpresa di scoprire, qualche ora dopo, che il primo giorno del 2018 aveva portato con sé anche un grande album; inaspettato, perché il 2017 di Jeff Rosenstock era stato tutt’altro che pigro, dopo la pubblicazione dell’acclamato WORRY.
Dumbfounded, downtrodden and dejected.
Crestfallen, grief-stricken and exhausted.
Trapped in my room while the house was burnin’
to the motherfuckin’ ground
POST parte da dove finiva il lavoro precedente. Le prime parole che sentiamo – quelle della grandiosa USA – sono perfette nel descrivere l’angoscia di questo nuovo medioevo americano. L’angoscia di un punk progressista, che si guarda intorno e si domanda chi sia stato a permettere tutto questo, dubitando dell’everyman in coda nella station wagon proprio lì accanto o del commesso alla pompa di benzina. Sii sincero, dimmelo: sei stato tu?
Ansia, incredulità, da un tizio che due anni fa in fondo aveva previsto tutto, racchiudendo le sue paure in micidiali canzoni power-pop da due-minuti-due. A livello musicale, POST spinge ancora più a fondo sul pedale della melodia e della stratificazione: USA, per dire della prima canzone in programma, si stende per sette minuti e mezzo e si candida a essere uno dei pezzi indie-rock dell’anno, tutta stacchi, ripartenze, cori e layer di chitarra.
Fateci caso: anche se tutto fila per il verso giusto, liscio come l’olio, già al primo ascolto vi accorgerete che le progressioni armoniche, qui dentro, sono tutt’altro che prevedibili. C’è sempre il punk sparato, californiano e ipermelodico di Yr Throat, Powerlessness e Melba, ma non manca l’attenzione per il dettaglio sonoro (sentite la tastierina che entra sulla seconda strofa, a doppiare la linea vocale). Ci sono sempre tanti Weezer, come testimoniano diversi ottimi mid-tempo (All This Useless Energy, TV Stars, 9/10), eppure tutto questo zucchero melodico è sparso su una visione amara e tutt’altro che consolatoria della società dei meme. Leggete qui:
Shriek into the toxic well
where everybody’s screaming for themselves
and leaves no space to process feeling lost.
These overwhelming distractions
lead to powerlessness
and I feel too weak to walk it off.
Meet me at the Polish bar,
I’ll be the one staring at my phone,
shaking like a nervous kid,
totally terrified of being alone.
Non è così, però, che uno come Rosenstock può concludere un disco importante come POST, perché proprio non sarebbe rappresentativo del suo pensiero. L’analisi sociale e l’introspezione, qui, sono proattive, un invito a riprendere in mano la nostra esistenza e il nostro futuro a un duplice livello, personale e politico. Due ambiti che, nel caso di Rosenstock come del miglior DIY, non sono mai separati.
E quant’è bello che, dopo tanti ritornelli a perdifiato, gli ultimi undici minuti siano dedicati alla catartica Let Them Win: possono prenderci a calci nelle ginocchia, canta Jeff; possono arricchirsi raccontando balle, farci paura, giudicarci quando piangiamo e non empatizzare con nessuno se non con se stessi. Ma non li lasceremo vincere. Non di nuovo. Fuck no.
Titolo | POST-
Artista | Jeff Rosenstock
Durata | 40:11
Etichetta | Polyvinyl Records