Poesia per l’estate

Poesia per l’estate

ph. Angela Conversano

L’estate è una stagione violenta. Chi nasce d’estate viene al mondo in una terra arsa e dorata, affaticata dall’afa e stordita dagli effluvi dolciastri dei frutti maturi; chi muore, gli pare di morire di più.
Quando il fico maturo inizia a marcire, quando il canto bulimico delle cicale si zittisce come attonito per un istante, quello è il cuore dell’estate, la stagione del sangue.

« Ciatu miu
ciatu
si rispiru
rispiro
pa to vucca.
Si talìu
taliu pri to’ occhi
Appressu a tia
imparu a circari
intra l’ortichi
a trazzera ca porta
a lu mari. »

(Goliarda Sapienza, da Ancestrale, ed. La Vita Felice, 2013)

Al mare ci portava mio zio, con la sua Cinquecento blu: le pinne delle mie cugine le sistemava nel bagagliaio insieme agli asciugamani, mentre le borse di paglia dovevamo tenercele in grembo, a rigarci le gambe abbronzate e le braccia, e i thermos fra i piedi per evitare il peggio.

Ricordo i muretti di pietre scivolare via come serpenti fra gli uliveti, i capelli già incollati al collo quando il mare era ancora un puntino fresco lontano. Ricordo il rumore degli zoccoletti, appena scesi dall’auto, sul tappeto di aghi secchi di pino; i vassoi di focaccia al pomodoro sul bancone del bar e la vecchia proprietaria che lavorava la pasta per i panzerotti che avrebbe venduto a pranzo; le chiavi delle cabine appese in ordine ai chiodini di una bacheca; i capelli rossi e vaporosi di un’amica di famiglia. Centotrentacinque gradini di pietra a separarci dal mare.

Andare al mare con i miei zii mi piaceva. Mi piaceva fingere che le mie cugine fossero le mie sorelle, che quella degli zii fosse la mia prima famiglia − non mi sentivo in colpa per i miei genitori, che amavo moltissimo − e che quella fosse davvero la mia città e non soltanto un nome scritto a macchina sulla mia carta d’identità. Mi divertivo a recitare un dialetto che doveva essere il mio e che non sapevo parlare.

« Questi bei giorni di sole sottraggono ogni argomento alla tristezza.
Baluginano le case calcinate sparse sulla collina verde.
Ecco, anche un cavallo rosso nella piana. Torna qualcosa
di scordato dalle vecchie estati. Ma erano veri
quella ragazza nel campo di granturco e quel ragazzo
nell’oro del meriggio che faceva segno al battello di passaggio
con l’asciugamani da bagno. Eri vero
anche tu che non avevi niente di tuo
se non quello che donavi, e forse quello che donerai ancora. »

Karlòvasi, 25.VII.87

(Un’altra estate, Ghiannis Ritsos, da Molto tardi nella notte, ed. Crocetti, 2020)

D’estate «ci si risveglia come in un acquario» scrive Cardarelli. E tutto ciò che accade accade più volte, dilatato, sfuocato, irreale: «Afa pesante | nei miei sogni diurni | vocii di cicale» scrive Sōseki fra i suoi haiku.

I pomeriggi d’estate li trascorrevo in terrazzo a riempire a matita i quaderni dei compiti. La nonna mi faceva compagnia pulendo la rucola e bisbigliando sovrappensiero, oppure ricamava tulipani e limoni a punto croce e preparava marmellate di uva.

Mi piaceva fare per lei piccole commissioni. Mi piaceva soprattutto andare all’alimentari a comprare scamorze e solvente per unghie: il negozio era fresco e l’odore dei formaggi − caciocavalli, burrate, treccioni e nodini − mi faceva letteralmente impazzire. Poiché qualche volta, sotto il cuscino, trovavo un pizzino del nonno con una banconota − “Mille lire per te, nonno” − allungavo di corsa il giro fino all’edicola o alla panetteria.

… C’è un giardino chiaro, fra mura basse, di erba secca e di luce…

Niente è cambiato da allora, ogni cosa è stata protetta. I carretti agli angoli delle strade ancora mettono in mostra cocomeri dolci e meloni gialli; si fa la fila al banco del pesce in scarpette di tela, ignorando la danza del polpo che ancora non muore; le triglie hanno occhi di vittima nei loro sacchetti, tra mele, taralli e cestini di ricotta fumante.

Soltanto noi non siamo più qui e non siamo né vivi né morti. Solo un momento ci era sembrato, fermarsi al muretto, al ritorno dal mare, a levare la sabbia da un piede con la pianta dell’altro. Solo un momento appoggiati al muretto a levare la sabbia. E siamo rimasti indietro.

« Dammi i tuoi fiori selvatici,
piccole teste gridate nel grano,
nell’oro del mattino freschi incendi
di rosolacci ed il mare lontano:
il mare azzurro a picco sulle case
candide del paese, un grido ed una vela
che va e viene fra i panni
tesi sulle terrazze. »

(Dammi i tuoi fiori selvatici, Vittorio Bodini, da Tutte le poesie, ed. Controluce, 2019)

LEGGI ANCHE  Il cibo, la Sicilia, la memoria | "Ti mangio con gli occhi" di Ferdinando Scianna
Anche tu puoi sostenere SALT! Negli articoli dove viene mostrato un link a un prodotto Amazon, in qualità di Affiliati Amazon riceviamo un piccolo guadagno per qualsiasi acquisto generato dopo il click sul link (questo non comporterà alcun sovrapprezzo). Grazie!

NO COMMENTS

Leave a Reply