I miei pensieri sono lontani mille miglia
giacciono insieme a te nei tuoi sogni
e ti baciano al tuo risveglio
Kathy’s Song, Simon & Garfunkel
I chilometri che ci separano si contano come margherite spontanee, volontarie: si contano a migliaia sulle dita della mia mano. Cominciano dalla mia finestra e finiscono sulla soglia oscura della tua stanza, oltre l’edicola all’angolo. Infilano passi infiniti, che attraversano vie semafori piccoli golfi e lingue straniere: i chilometri che ci separano, li sento addosso uno ad uno, come piccole vertebre sconnesse, caviglie slogate.
«La sorpresa di svegliarsi al mattino e vedere e sentire un corpo nudo accanto, il piacere inesprimibile di toccarlo, qui, lì, dolcemente, come se fosse una rosa, dire fra sé e sé, Piano piano, non la svegliare, fatti conoscere, rosa, corpo, fiore, poi la premura delle mani, la carezza prolungata e insistente, fino a che Maria Sara apre gli occhi e sorride.»
Storia dell’assedio di Lisbona, José Saramago
I nostri chilometri tesi – che ci separano, che si percorrono a nuoto nuotando tredici giorni – si allentano al mattino, al risveglio: quando, come una bambina che giochi col suo amico immaginario, mi recito la tua presenza, e le tue piccole impronte, e riempio di luce il mio giorno nuovo. Come in una delle pagine più belle di A misura d’uomo di Camurri, ti alzi per primo, prepari il caffè, prepari la colazione spalmando due fette di pane con la marmellata di ciliegie, intanto inizia il tg: poi torni a letto, per svegliarmi con la voce ancora impastata di sonno, e mi scivoli accanto, col tuo odore caldo.
«Coi nervi d’improvviso in rotta, svegliandomi all’Hotel Sole, dalle parti di Campo dei Fiori. Sulle prime non mi raccapezzo, allargo a vuoto la mano in cerca della solita, rassicurante presenza d’un sonno amico al mio fianco. E subito mi ritrovo seduto in mutande sulla sponda del letto, con le gambe penzoloni, mentre sento, come sbucasse dal fondo d’una canna fumaria, un filino di luce fra le cucite palpebre dirmi buongiorno. Albeggia, e io me ne sto così, in questo magro chiarore, a commiserarmi, a chiamarmi piano per nome. Che schifo, il mio cuore di Sèvres, FRAGILISSIMO NON TOCCARE, se basta un segnale d’autunno come quando ero ragazzo, per farmi venire il sentimento dello smacco perpetuo, della bancarotta senza rimedio; per farmi chiedere che ci faccio qui, in questa matrimoniale senza bagno, coi calzini di ieri a rotoli dentro le scarpe; e il vaso da notte coperto con un giornale, e sul comodino una boccetta di Gardenal. Gesualdo, pover’uomo. Perché, diciamolo chiaro, sono al punto. Potrei cascare a terra fra un minuto e morire senza averci capito nulla.»
Argo il cieco, Gesualdo Bufalino
Se anche, per tutti questi chilometri ostinati e antagonisti, io mi sveglio da sola e tu ti svegli da solo, con questa poesia di Marina Cvetaeva – moscovita ribelle irrequieta e coraggiosa – io maledico la nostra geografia malata, e corro sul filo della nostra distanza come un cavallo impazzito, come un’equilibrista: e senza più fiato, alla fine di tutti i chilometri muti che ci separano, giungo da te al mattino, e ti accarezzo al risveglio.
Ciao! Né freccia né pietra:
io! – La più viva delle donne:
vita. Tutte le mie carezze –
al sonno incompiuto.
Vieni qui! (vale a dire:
Tienimi! – è questione di senso)
Afferrami tutta così felice
e semplice come mi vedi!
Stringimi! – che oggi lontano navighiamo,
stringimi! – che sciamo! – con un filo di seta!
Oggi porto una pelle nuova:
quella dorata, la settima!
– Mio! – altro che ricompense
in cielo, se tra le braccia, sulla bocca
c’è la Vita: la felicità sfacciata
di dirti ciao ogni mattina!
(da “Scusate l’Amore. Poesie, 1915-1925”, Marina Cvetaeva, a cura di Marilena Rea, Passigli)